Nucleo 11                                                                                       Back to FanFic  Back to Home

Nucleo: parte vitale, centrale, di qualcosa, di cui in genere ha costituito... l’origine.

 

Dolore.

Sofferenza..

Disperazione...

 

... Agonia...

 

Le sue compagne.

Le sue amanti.

Le sue sorelle.

 

Per interminabili, lunghissimi, attimi.

Il tempo, dilatato dal terrore, come un’enorme bocca irta di fauci, spalancata per serrarlo nel suo, inevitabile, terribile, abbraccio.

 

L’oblio gli rifiutava il suo confortante rifugio.

La morte non gli concedeva il su Bacio.

 

Come l’avrebbe voluto!!

 

Quel leggero, delicato, sfiorarsi di labbra con l’Antica Signora.

Come avrebbe voluto sentire sul suo viso accaldato dalla febbre, il suo fresco, profumato, respiro.

 

Pace.

 

Un pace perfetta, fatta di silenzio immoto.

 

Dove non avrebbe più sentito quelle urla strazianti.

Dove non avrebbe più visto quelle lenzuola candide macchiarsi irrimediabilmente di rosso.

Dove non avrebbe più avvertito il cordoglio di quell’anima fatta a pezzi con tanta deliberata, fredda, follia.

 

Le sue grida.

Il suo sangue.

Il suo corpo.

 

Hanamichi emise un flebile lamento cercando di scostare il braccio, ma i lacci che lo tenevano legati erano ben saldi e lui...

... lui era troppo debole.

Così stanco da non avere nemmeno la forza per socchiudere le palpebre.

Avvertì il bruciore dell’ago sottile che s’infilava sotto la pelle e poi di nuovo quel senso di nausea che ormai gli era così famigliare.

Quasi amichevole.

Quasi piacevole in confronto di ciò che, sapeva, sarebbe sopraggiunto poi...

 

Supplizio.

Paura.

Strazio.

 

La testa gli faceva male e i suoni gli rimbombavano nelle orecchie confondendosi senza permettergli di comprenderli.

Non sapeva con che cosa lo stessero drogando ma aveva un effetto devastante su di lui.

Da quanto erano giunti in quel laboratorio?

Non molto.

Forse tre, quattro, giorni.

 

Secoli.

Millenni.

 

Era stato come tornare indietro.

Come risvegliarsi da un incubo terribile e scoprire una realtà ben peggiore.

 

Follia.

 

Cara amica la cui mano ancora riusciva a rifiutare...

Per quanto...?

Non lo sapeva.

 

Non ancora...

 

Continuava a ripeterselo come un mantra.

Aveva ancora qualcosa da proteggere.

Qualcosa per cui valeva la pena sopportare.

Un appiglio a cui si aggrappava disperatamente in quell’oceano di dolore infestato da squali dalle fauci aguzze.

Gli scienziati, con i loro bisturi lucenti, si avventavano su di lui strappandogli pezzi di carne per poi allontanarsi silenziosi com’erano venuti.

Ma come per i feroci predatori marini il sangue che il suo corpo fatto a pezzi spargeva ne attiva altri, e altri ancora.

Ed ognuno, veloce e preciso, veniva  a reclamare il suo pezzo di cibo.

 

Ferendo.

Straziando.

Distruggendo.

 

Uno dopo l’altro gli esperimenti gli strappavano l’anima, contendendosela poi, come gatti randagi che lottavano per un boccone prelibato.

 

Non aveva la forza per opporsi ma aveva ancora la volontà di non cedere al buio.

 

Lo alimentavano con una flebo.

Quel cibo sintetico e fasullo avvelenava il suo corpo rendendolo debole, spegnendo ora dopo ora il suo potere.

La sua luce.

L’avvertiva tremolare giorno dopo giorno...

Esperimento dopo esperimento...

Sempre con maggior fatica.

 

Il suo corpo bruciava.

 

Aveva provato a liberarsi.

A scappare.

Ma non c’era stato verso.

Non c’era stato mezzo.

Come se fosse un destino predefinito.

Qualcosa di disegnato e immutabile.

 

La sua strada.

 

Sofferenza.

 

Il suo destino.

 

Dolore.

 

Quale colpa aveva commesso?

Che cosa aveva fatto di così terribile per meritare una simile punizione?

 

“Vi prego basta...” sussurrano le sue labbra pallide.

Ma non un fiato uscì dalla sua gola stanca.

Non aveva più voce.

L’ossigeno che gli facevano respirare gli aveva straziato la gola.

Come acido sfrigolava nei suoi polmoni tramutando i suoi respiri in lenti rantoli.

Stavano distruggendo la sua volontà.

Cancellando con quell’inesorabile agonia l’unico appiglio che ancora gli impediva di lasciarsi andare.

La sua ancora di salvezza.

Il ricordo di una sensazione.

 

Il calore delicato eppure così intenso di quell’unico, lieve, sfiorarsi.

 

Il suo primo bacio.

 

Perchè non fosse l’ultimo avrebbe continuato ad imporre al suo cuore di battere.

Per non lasciar morire quel sentimento così prezioso avrebbe continuato a chiedere ai suoi polmoni di respirare veleno.

 

Ru...

Un pensiero che le sue labbra troppo stanche non riuscirono a pronunciare.

 

La barella ebbe un piccolo scossone mentre lo scienziato di turno la spingeva dentro il laboratorio.

Dietro le spalle fasciate di bianco del medico la porta massiccia si richiuse con un tonfo sordo e definitivo.

 

 

Mitsui e Kei si erano dati il cambio nella guida in modo da permettere loro di percorrere il maggior numero di chilometri nel minor tempo possibile.

L’ex teppista non aveva la patente ma se la cavava bene al volante ed erano stati abbastanza fortunati da non incrociare nessun poliziotto desideroso di controllare le loro credenziali.

Rukawa, immobile accanto al furgone, osservava l’edificio quadrato, basso, semi nascosto dai resti di una fabbrica in disuso, attraverso le lenti del binocolo.

Edmond non aveva lasciato nulla al caso.

Aveva fatto costruire il laboratorio in un luogo praticamente deserto, malfamato, in cui nessuno sarebbe andato a controllare.

Li non avrebbero fatto domande.

Nessuno avrebbe ficcato il naso.

E in più... non c’erano alberi, piante o animali.

I residui tossici della fabbrica fatta chiudere anni prima ancora impregnavano quel terreno grigio impedendo ad alcun che di crescervi.

 

Disperazione.

 

Ogni centimetro di quella landa di desolato cemento e lamiere contorte sembrava trasudare quel sentimento.

 

Come se quell’angolo d’inferno grigio gridasse il suo muto dolore a sottolineare quello del suo prigioniero.

Perchè erano ormai sicuri che Hanamichi fosse li dentro.

Oltre quei muri sbrecciati e sporchi.

Strinse il pugno e lo rilassò un paio di volte senza riuscire tuttavia a dare sfogo alla sua rabbia e alla sua pena.

“Aspetteremo la notte per agire” così aveva detto cautamente Key.

Aveva ragione, naturalmente.

Non potevano correre il rischio di fallire.

Ma sapere che lui era lì, a pochi chilometri da lui, e non poterlo raggiungere....

Stava impazzendo!

Che cosa avrebbe dato per abbracciarlo.

Stringerlo e non lasciarlo andare più.

Mai più!

 

Temeva il momento in cui lo avrebbe infine rivisto.

 

Se fosse stato ferito?

O peggio...

 

Scosse il capo con rabbia mentre il suo sguardo scivolava inesorabilmente all’albero sotto la cui protezione si era fermato.

Un piccolo parco, quello sopra quella collina così adatta a spiare la zona industriale, l’ultimo rimasto nella città che si stava espandendo a discapito del verde.

 

La storia sembrava davvero non fare altro che ripetersi.

 

Una foglia leggera lasciò i rami scuri scivolando nell’aria densa, ondeggiando, fino ad accasciarsi stancamente a terra, tra l’erba secca e giallognola.

Rukawa sospirò passandosi una mano tra i capelli umidi di sudore.

Faceva così dannatamente caldo.

Il sole sembrava bruciare.

L’acqua stava drasticamente diminuendo nei fiumi e nei laghi.

Gli alberi perdevano le foglie.

La terra seccava.

Troppo stanchi per volare i passeri non si alzavano più in volo.

 

“Sta morendo...” sussurrò Key avvicinandoglisi piano, raccogliendo la foglia caduta.

“... e con lui spira il Cosmo.”

 

Rukawa sussultò voltandosi verso il guardia boschi e questi gli porse un sorriso stanco prima di volgere la sua attenzione verso il laboratorio lontano.

“Avevi detto che non poteva morire!” esclamò Rukawa, con rabbia, sfogando nella sua accusa tutto il dolore e la paura che quelle parole avevano liberato in lui.

Il ragazzo scosse il capo mestamente.

“Hanamichi non può essere ucciso” spiegò.

L’asso dello Shohoku lo fissò furioso, senza capire “E’ la stessa cosa!?” disse secco.

Il moretto si volse a fissarlo tristemente “No, non è la stessa cosa. Hana può morire se egli stesso lo desidera.” mormorò.

Kaede sussultò spalancando gli occhi.

 

Il suo Hanamichi?

 

Quel ragazzo così vitale, solare e allegro...

Così... vivo...

... stava davvero desiderando la morte?

 

Non poteva accettarlo.

Non voleva accettarlo.

“Non mollare Hana...” sussurrò con voce roca “...sto venendo a prenderti”

 

 

La notte scese lenta e stanca.

Il cielo fattosi nuvoloso all’imbrunire, copriva le stelle e la luna avvolgendo in spesse tenebre la città.

“Per fortuna che abbiamo questi” mormorò Ryota sistemandosi sul naso gli occhiali ad infrarossi che Key aveva fornito loro.

Solo Rukawa e Akira non li indossavano dato che, l’avevano scoperto la notte successiva all’attentato, vedevano al buio bene quanto alla luce.

Un’altra dote innata delle Falci.

A che cosa servivano, poi, tutti quei poteri, si era domandato spesso, con rabbia, Rukawa, durante le interminabile ore di viaggio, se avevano lasciato che Hanamichi venisse catturato.

Catapultato di nuovo in quell’incubo da cui loro avrebbero dovuto proteggerlo.

Da cui si era ripromesso di strapparlo una volta per tutte.

Ayako lo aiutò ad indossare il piccolo diadema metallico collegato al fucile psichico mentre Koshino faceva lo stesso con Akira.

“Ti dona” commentò divertito il playmaker del Ryonan fissando il suo ragazzo con quella specie di cerchiello per ragazze tra i capelli ritti come spilli.

Sendoh storse il naso protestando che la sua gloriosa capigliatura perdeva di tono con quell’affare in testa e Mitsui ridacchiò cercando di alleggerire l’atmosfera.

Erano tutti molto tesi.

Nonostante la convinzione che quello che stavano facendo era giusto, non potevano fingere di non sapere che quella notte avrebbero, probabilmente, ucciso delle persone.

“Pronti?” chiese sussurrando Key, imbracciando il suo fucile.

Le loro erano armi molto più tradizionali anche se costruite sfruttando le tecniche e le conoscenze della loro vita passata.

I ragazzi annuirono, assestandosi le tute scure e i giubbotti antiproiettile che avrebbero fornito loro una, per quanto minima, protezione.

“Allora andiamo!” disse deciso Rukawa aprendo la strada agli altri, ormai incapace di tenere a freno l’impazienza.

Il loro piano era abbastanza semplice.

Si sarebbero introdotti nell’edificio cercando di fare il meno rumore possibile, avrebbero prelevato Hanamichi e, sperando in bene, se la sarebbero data a gambe senza dare nell’occhio.

Avevano trovato, grazie ad un lungo lavoro congiunto di Ayako e Mito, sul computer, la planimetria del laboratorio.

Ciò consentiva loro di non andare alla cieca e di avere anche una mezza idea di dove tenessero il Nucleo.

Scivolarono nel buio silenziosi, avvantaggiati dagli speciali visori.

“Bene, dividiamoci” sussurrò Key nel piccolo auricolare che, ognuno di loro portava, per tenersi in contatto con tutti gli altri.

Ryota, Ayako, Akira e Koshino si diressero su un lato dell’edificio mentre  Rukawa, Key e Mitsui si diressero sull’altro.

L’alta recinzione che circondava il perimetro non fu un problema per nessuno dei due gruppi che se ne liberò con discreta facilità grazie ad un apposito paio di tenaglie fornite dall’ex scienziato.

Fortunatamente Edmond sembrava aver fatto molto affidamento sull’elettronica.

Un intricato sistema di allarmi e telecamere impediva a qualsiasi cosa di avvicinarsi non visto.

Tuttavia se quei meccanismi erano quanto di più sofisticato offrisse la scienza moderna per Key e Ayako, abituati alle attrezzature di Vega Uno, erano quasi anticaglie.

“Siamo entrati” comunicò loro Akira, tramite la ricetrasmittente, proprio nel momento in cui anche loro scivolavano all’interno della base.

“Anche qui tutto ok” riferì Mitsui parlando sottovoce.

Rukawa strinse con forza il fucile tra le mani.

In una delle stanze di quell’edificio riposava il rossino.

Il suo rossino, che si stava spegnendo.

“Siamo qui, amore non morire” pensò tra sè, pregando che non fosse davvero troppo tardi.

 

Il Centro era avvolto nel silenzio denso di quella notte sospettosa, le poche luci che illuminavano il corridoio interminabile, elettriche e ronzanti, come enormi cicale, spargevano la loro luce bluastra sui pavimenti candidi.

Akira procedeva in testa alla piccola comitiva, il fucile psichico nella mano destra, pronto all'uso se ce ne fosse stato bisogno.

I loro passi per quanto attenti e attutiti dalle scarpe da ginnastica rimbombavano come spari nei cervelli dei quattro ragazzi, nelle cui orecchie batteva forsennato il loro cuore.

Forse l'istinto della Falce, forse l'udito reso più acuito dalla tensione, Akira avvertì il suono secco degli stivali di qualcuno che stava procedendo verso di loro.

Alzò una mano bloccando i suoi compagni che si appiattirono contro il muro pallido, reso quasi iridescente dalla luce del neon, mentre sollevava la canna del fucile e silenzioso come un gatto scivolava lungo il corridoio fino alla piccola svolta che questo prendeva, sulla destra.

La guardia non ebbe il tempo di urlare.

Akira lo colpì al volto con estrema precisione, mandando la sua testa a sbattere contro il muro prima che egli si accasciasse a terra privo di sensi.

Koshino si avvicinò al compagno, sfiorandogli un braccio in muto ringraziamento per non aver ucciso il loro antagonista e Sendoh gli sorrise.

Gli aveva promesso che, se non fosse risultato indispensabile, non si sarebbe nuovamente macchiato le mani di sangue.

Falce o meno, restava comunque un ragazzo di diciassette anni con già un paio di uomini sulla coscienza.

Ripresero il loro percorso in silenzio seguendo la planimetria dell’edificio.

Finchè Rukawa, Key e Mitsui erano impegnati al salvataggio del Nucleo loro avrebbero assaltato gli uffici del laboratorio in modo di cancellare ogni prova, o dato, che gli scienziati avessero raccolto sul rossino.

Non potevano permettere che qualcun'altro partendo da lì cominciasse nuovamente a cercarlo.

Avrebbero fermato il ripetersi ciclico di quella maledetta storia.

“Quella dovrebbe essere la porta che da sugli uffici” sussurrò Ayako indicando loro un piccolo uscio bianco.

Akira annuì allungando una mano per aprirla.

Per il momento avevano avuto fortuna.

Scivolarono nel nuovo corridoio riprendendo a camminare con maggior attenzione.

Ora piccole porte tutte uguali si aprivano alla loro destra e alla loro sinistra.

I ragazzi si divisero cominciando ad aprirle una dopo l’altra alla ricerca del server principale o degli archivi in cui potevano essere stati archiviati i dati del Nucleo.

 

Mitsui si guardava attorno con gli occhi ridotti a due fessure e la mascella contratta.

Per arrivare alle camere dovevano necessariamente attraversare il laboratorio.

Oggetti metallici dalle forme crudeli ed affilate risplendevano in bella mostra su tavolinetti bianchi, protetti dal tessuto candido di alcuni lenzuoli.

Rukawa dovette fare uno sforzo spaventoso per non far esplodere il suo potere quando, passando per quella che doveva essere la ‘sala operatoria’, aveva visto il lungo lettino verde spento su cui spiccavano scure le cinghie con cui avevano, probabilmente, legato il suo do’hao a quella moderna macchina di tortura.

“Sbrighiamoci” ringhiò Key con voce livida di rabbia accelerando il passo.

Un’altro istante in quel luogo e sarebbe impazzito.

Rukawa aprì una pesante porta metallica che dava su un altro lungo corridoio.

Quel luogo era un labirinto!

Anche con l’ausilio della planimetria erano costretti a girare a vuoto per diversi minuti solo per passare da un zona all’altra.

“E voi chi diav...!” i tre ragazzi sussultarono voltandosi di scatto.

Da una porticina che si apriva poco più avanti nel corridoio che stavano percorrendo, era spuntato un uomo in camice bianco.

Mitsui fu rapido ad atterrarlo con un diretto prima che lo scienziato avesse modo di dare l’allarme.

L’uomo si accasciò al suolo con un rumore di vetri infranti che spinse Key a chinarsi sul corpo privo di sensi.

Nelle tasche del camice trovò quel che restava di due piccole ampolline di vetro sterile e una lunga siringa per prelievi.

“Ci siamo!” disse gettando quest’ultima, con disprezzo, sul corpo dell’uomo svenuto.

“Hana deve essere nelle ultime stanze qui infondo, stava andando a fargli un prelievo!” dedusse.

Animati dalla certezza di essere ormai prossimi alla meta i ragazzi si avviarono verso l’ultima porta che conduceva alla zona centrale della base.

 

Ayako aprì l’ennesima porticina anonima, ormai esasperata, ma sorrise soddisfatta quando finalmente vide quello che stava cercando.

L’archivio!

Richiamò gli altri e, mentre Akira si metteva a guardia della porta e Mito e Koshino aprivano l’enorme schedario cercando le analisi del rossino lei si diede all’assalto al computer posto poco lontano, su una scrivania di mogano scuro.

 

Quel posto sembrava  fatto a posta per fargli perdere la pazienza!

Pensò Rukawa furioso aprendo l’ennesima porta che dava sulla milionesima stanza vuota.

Possibile che ci fossero tante stanze inutili.

“Dove sei Hana?” mormorò piano spalancando l’ennesimo uscio mentre Key e Mitsui più avanti nel corridoio provvedevano ad aprirne altrettanti alla ricerca spasmodica del rossino.

Ci stavano mettendo più tempo del previsto.

Ayako aveva appena comunicato loro di essere riuscita ad accedere al computer principale.

Presto avrebbe distrutto tutti i dati e poi si sarebbero ritirati.

Se solo loro nel frattempo lo avessero trovato!

Il terrore che Edmond l’avesse ormai condotto in America cominciava a serpeggiargli gelido nelle vene.

Sarebbe diventato tutto più difficile.

Ogni pensiero venne bruscamente annullato nel momento in cui i suoi occhi misero a fuoco l’interno della piccola stanzetta avvolta dalla penombra.

Era uguale a tutte le altre.

Bianca, spoglia, un piccolo letto e una finestrella con le inferiate.

 

Ma il letto questa volta era occupato.

 

Rukawa coprì esitante i pochi metri che lo separavano da Hanamichi mentre il fiato gli si bloccava in gola e le lacrime gli scivolavano calde e silenziose lungo le guance.

“Hana...” ansimò con voce rotta quando infine la vista annebbiata gli permise di mettere a fuoco lo stato del suo compagno.

Il suo disperato appello rimase senza risposta ma, in compenso, ebbe il potere di gelare i ragazzi che, attraverso gli auricolari, sentirono nitidamente la voce roca, sgomenta, del volpino e l’unico singhiozzo che gli spezzò il fiato, a seguito della sua disperata invocazione.

Key e Mitsui si precipitarono nella stanza in cui era sparito il loro amico, decisi ad aiutarlo, ma rimasero gelati sulla soglia.

Rukawa cadde pesantemente in ginocchio accanto al lungo trespolo che sosteneva la flebo mentre i suoi occhi si chiudevano per non vedere.

Strinse i pugni, ferendosi a sangue mentre le lacrime fluivano sul volto livido di rabbia e dolore.

Mitsui imprecò, sfogando furore e disperazione, con un pugno che s’infranse contro l’uscio di legno mentre Key si avvicinava piano al letto, obbligandosi a controllare i dati che scorrevano sui macchinari a cui il Nucleo era stato attaccato.

 

Il battito era innaturalmente lento.

Il respiro era stimolato da un pompa che spingeva l’aria direttamente nei polmoni del ragazzo tramite una mascherina trasparente che copriva il volto pallido.

 

“Rukawa, Key... ca***o rispondete!! Come sta?” chiese la voce agitata e preoccupata di Akira, dall’altra parte dell’interfono.

Il guardia boschi scosse il capo detergendosi con le mani il volto bagnato mentre osservava Rukawa allungare esitante una mano per sfiorare, quasi con timore, i capelli rossi sparsi sul piccolo cuscino.

“Hana...” ripeté piano il volpino, chiamandolo dolcemente, la voce rotta dall’emozione mentre i suoi polpastrelli sfioravano leggeri la pelle ferita.

Key si avvicinò alla falce nera mettendogli una mano sulla spalla e Kaede sollevò il volto distrutto su di lui, gli occhi imploranti come se si aspettasse che il ragazzo più grande potesse fare qualcosa.

Potesse salvarlo.

Ma il moretto scosse lentamente il capo.

 

“Che... che sta succedendo?” mormorò Ayako piano, la voce vibrante e spaventata anche attraverso l’auricolare.

 

“L’hanno mandato in coma...” sussurrò con un filo di voce Key.

 

 

continua............                                                                                            

 

 

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