Catene 2                                                                Back to FanFic  Back to Home

Hanamichi tentava disperatamente di arginare i singhiozzi che cercavano di soffocarlo quando avvertì il debole suono con cui la porta veniva nuovamente aperta.

Spalancò gli occhi con il terrore che il suo aguzzino fosse tornato indietro per ferirlo ancora.

Aveva strappato il suo orgoglio, spezzato il suo corpo, infranto i suoi sogni, credeva che almeno gli avrebbe concesso di piangere.

Lo odiava.

Lo odiava con la stessa intensità con cui odiava se stesso.

Perchè lui era venuto, sotto il tocco di quelle sue mani candide dalle dita dannatamente lunghe, si era teso e aveva ansimato come una bestiolina in calore.

Odiava il ricordo della sua bocca che ancora gli gonfiava le labbra ma soprattutto odiava quei suoi occhi blu.

 

Intensi, profondi.

 

Che non l’avevano lasciato un solo momento violando la sua anima tanto quanto aveva violato il suo corpo.

Tuttavia non fu il suo ‘padrone’ ad entrare nella sua camera bensì due ragazzi dai capelli scuri.

Il primo era molto alto, carnagione chiara quasi quanto quella del ragazzo che l’aveva appena preso, occhi scuri e un bel sorriso, i capelli neri sparati in aria.

Indossava un’elegante veste azzurra su cui, all’altezza del cuore era ricamato un simbolo in argento.

Passò lo sguardo sulla donna notando che anch’essa portava un simbolo simile sulla veste bianca.

 

Schiavi.

 

Come lui.

 

La ragazza gli si avvicinò lentamente facendo scorrere lo sguardo sul suo corpo ignorando il violento rossore sul volto del rossino.

“Non guardarmi” ansimò, la voce ancora roca per il pianto.

Lei gli sorrise dolcemente spingendo un ricciolo scuro dietro l’orecchio.

“Dammi una mano Akira..” mormorò rivolta all’altro ragazzo “...sleghiamolo”

Gli occhi di Hanamichi scintillarono per un momento ma la ragazza scosse il capo fissandolo.

“Non andresti lontano” gli fece notare come se avesse letto nei suoi pensieri.

“Comunque non nelle condizioni in cui sei” aggiunse il giovane chiamato Akira, aprendo una porta laterale che dava evidentemente su un bagno, dato che poco più tardi sentì il rumore dello scorrere dell’acqua.

“Il mio nome è Ayako” si presentò intanto la ragazza liberandogli i polsi.

Non sembrava spaventata dal fatto che lui potesse tentare di colpirla per provare a fuggire.

In effetti anche se avesse voluto il rossino aveva le braccia così intorpidite da riuscire a malapena a muoverle.

La ragazza si alzò, spostandosi verso metà letto, sciogliendo i lacci che gli immobilizzavano le ginocchia.

Hanamichi emise un flebile gemito raggomitolandosi su se stesso, stringendosi le braccia indolenzite attorno alle gambe, che aveva portato al petto.

Ayako lo osservò in silenzio per un momento, dispiaciuta, prima che Akira attirasse la sua attenzione uscendo dalla stanza da bagno.

Il moro si fermò per ad osservare quel gigante rannicchiato su se stesso come un bambino in cerca di protezione prima di avvicinarsi al letto.

Hanamichi sussultò violentemente quando sentì le sue braccia chiudersi intorno a lui, tentò di ribellarsi ma era troppo debole, troppo stanco.

“Shh...” gli sussurrò Akira passandogli dolcemente una mano tra i capelli rossi “...non voglio farti del male” lo rassicurò prima di sollevarlo piano.

Lo condusse nella sala adiacente dove un’enorme vasca da bagno colma di acqua profumata e fumante li attendeva.

Senza curarsi del fatto che era ancora vestito Akira prese a scendere le scalette che conducevano verso la zona più fonda della vasca prima di deporre dolcemente il corpo di Hanamichi sulle piastrelle lucide.

Il rossino emise un flebile sospiro nell’avvertire quell’acqua calda avvolgere il suo corpo stanco, indolenzito, cancellando le tracce di sudore, di sperma e di sangue.

Akira prese una spugna da un piccolo ripiano e, sfilatosi la veste ormai resa pesante dall’acqua che l’inzuppava, tornò accanto a lui.

Il rossino lo allontanò di scatto quando il moretto gli posò il soffice oggetto sul petto.

“Calmati” mormorò il moro avvicinandosi nuovamente.

Hanamichi tentò di allontanarsi, alzandosi, ma barcollò pesantemente, la testa gli girava e le gambe rimaste troppo a lungo legate in quella posizione scomoda, al pari delle braccia, non rispondevano più a i suoi comandi.

Akira gli fece scivolare un braccio intono alla vita attirandolo a se, facendolo sedere su uno scalino prima di cominciare a passare la spugna sul suo corpo massaggiando le braccia e le gambe lentamente, con moti concentrici, per riattivare la circolazione la dove i lacci di cuoio e le catene l’avevano resa difficoltosa.

Hanamichi seguiva ogni sua mossa con occhi sempre più pesanti, il calore dell’acqua, la stanchezza per quanto era appena accaduto, quel massaggio lento e rilassante, senza nemmeno rendersene conto scivolò lentamente in un profondo stato di incoscienza.

 

“Problemi?” chiese Ayako quando Akira fece ritorno nella camera da letto, una nuova veste chiara al posto di quella bagnata, Hanamichi privo di sensi tra le braccia.

Il moro le sorrise adagiando il ragazzo svenuto tra le coltri che la ragazza nel frattempo aveva cambiato.

“No, è crollato quasi subito” mormorò piano per non sveglialo.

La ragazza annuì prima di coprirlo con le lenzuola pulite e seguire Akira fuori della stanza.

Si chiusero la porta a chiave alle spalle salutando con un cenno del capo Uozumi che si era appostato fuori dall’uscio nel caso il rossino avesse avuto la forza di tentare una fuga disperata.

“Rukawa vuole vederti” disse la guardia con voce cupa ad Akira che annuì dirigendosi verso le terme mentre Ayako tornava nei propri appartamenti.

 

Akira rimase immobile a bordo della grande vasca di marmo bianco osservando il suo signore riposare, il capo appoggiato ad un cuscino, per metà immerso nell’acqua.

“Mi avete fatto chiamare?” chiese per rompere il silenzio che avvolgeva la grande sala ricca di marmi.

Rukawa socchiuse le palpebre scostando una ciocca nera, umida, dal volto pallido.

“Come sta?” chiese con voce atona, apparentemente disinteressata, ma Akira trattenne un sorriso tra se, se aveva chiesto voleva dire che era interessato.

Il suo signore non sprecava mai le parole.

“Sta riposando ora, era ancora sotto shock.” Gli riferì concisamente sapendo quanto egli odiasse gli sproloqui.

La mascella di Rukawa si strinse impercettibilmente per un momento prima che il moro gli facesse cenno di raggiungerlo.

Akira lasciò che la veste gli scivolasse a terra prima di infilarsi in acqua e avvicinarglisi.

Il volpino gli porse le spalle e senza una parola il suo schiavo cominciò a massaggiargli la schiena tesa.

“Com’è stato per te?”

Akira s’interruppe, sorpreso dalla domanda.

Era così concentrato su quella pelle candida e perfetta che si era dimenticato della loro ‘conversazione’.

“Cosa?” chiese sorpreso.

“Come ti hanno domato?” spiegò meglio il moretto.

Akira sollevò un sopracciglio sorpreso.

Non se l’aspettava.

Il suo padrone, per le prima volta da quando lo conosceva, sembrava turbato.

“Bhe io sono figlio di una concubina, sono nato e cresciuto nelle scuole di Kendo Mitsui e il mio primo amante è stato proprio suo figlio, Hisashi” gli spiegò riprendendo a massaggiare la pelle liscia del suo signore.

“Hn..” mormorò il volpino sovra pensiero.

“Vedete mio signore solitamente gli schiavi da letto vengono allevati sin da giovani nelle case di piacere, per noi è giusto e naturale avere dei padroni. Ci è stato insegnato che doveva essere così. Invece da quel che ho letto nella sua scheda Hanamichi è stato ‘comprato’ solo pochi giorni fa.” Mormorò prima di mordicchiarsi le labbra.

Rukawa tuttavia non parve arrabbiarsi per il fatto che lui avesse sbirciato nelle carte del nuovo venuto, perso in tutt’altri pensieri.

“Hanamichi?” chiese assaggiando il sapore di quel nome tra le sue labbra.

“E’ il nome di battesimo della vostra fenice” mormorò Akira chinando il volto per posare un bacio sulla spalla del suo padrone.

Quel ragazzo aveva avuto davvero un effetto incredibile sul suo signore.

Rukawa di solito studiava sempre con cura ogni dettaglio prima di lanciarsi in una sfida.

Qualunque essa fosse.

 

Invece con quel ragazzo...

 

Sembrava aver perso ogni coscienza e freno.

L’aveva posseduto senza concedergli nemmeno il tempo di abituarsi alla sua condizione, senza curarsi nemmeno di conoscerne il nome.

Si ritrovò ad invidiare quel ragazzo dai capelli rossi che, senza saperlo, per la prima volta aveva fatto davvero breccia nel ghiaccio del suo padrone.

 

 

Hanamichi si svegliò molto più tardi, accarezzato da un raggio di luce chiara.

Socchiuse le palpebre trattenendo un lamento di dolore nel tentare di alzarsi.

Non c’era un muscolo del suo corpo che non gli dolesse, in primo luogo le gambe.

Strinse le braccia attorno ai fianchi nudi cercando una posizione un po’ più comoda mentre si guardava attorno cercando di studiare quella stanza di cui ricordava a malapena il letto e un angolo del bagno.

Era una camera ampia e sontuosa.

Tutto il suo precedente appartamento poteva stare comodamente all’interno di quelle quattro mura che ora lo imprigionavano.

Per non parlare dei mobili.

Con una sola delle sedie che c’erano accanto al letto a baldacchino avrebbe potuto comprare mezzo piano dello stabile in cui abitava prima.

Si sollevò lentamente a sedere massaggiandosi le ginocchia senza riuscire a trattenere il rossore per la rabbia e l’imbarazzo.

Cercando disperatamente di non pensare al motivo per cui ogni suo passo era così pesante e tutto il suo corpo sembrava ingabbiato nel cemento si alzò, avvicinandosi all’enorme armadio che occupava tutta una parete della stanza.

Socchiuse una delle sei ante trovandovi all’interno molteplici vesti che riproducevano, in perfetta scala cromatica, tutte le sfumature che dal panna, all’oro, passando per il marrone giungevano al rosso acceso. Su tutti quegli abiti di stoffa leggera, all’altezza del petto lo stesso simbolo.

Prese una delle vesti a caso, sfiorando con le dita quel simbolo che aveva avuto solo casualmente modo di notare ore prima.

Si trattava della tipica doppia S che contraddistingueva la condizione degli ‘schiavi da sesso’ solo che attorno ai due caratteri vi era attorcigliata una graziosa volpe bianca.

Probabilmente il marchio della casata del suo aguzzino.

Ignorando il fastidio nel indossare qualcosa del genere ma provando maggior imbarazzo nel girare nudo per la stanza, infilò la veste ignorando la piacevole sensazione che la stoffa pregiata e fresca dava alla sua pelle.

Quella veste come quella bellissima stanza non erano altro che simboli della sua condanna.

Catene, che lo tenevano ancorato lì e, per quel motivo, lui le odiava.

Si guardò attorno cercando una via di fuga.

Non aveva intenzione di aspettare che quell’uomo tornasse a fare i suoi comodi con il suo corpo.

Gli occhi blu del suo ‘proprietario’ brillarono, scintillanti, per una frazione di secondo, nei suoi ricordi.

Doveva andarsene subito, prima di perdere anche l’anima oltre all’orgoglio.

Ignorò la piccola scrivania che faceva bella mostra di se dirigendosi invece alla finestra, accanto ad essa, che dava sulle cime di grandi alberi dal fogliame verde/azzurro.

Sollevò un sopracciglio sorpreso guardando quei vegetali maestosi che aveva visto solo al cinema.

Sul suo pianeta non cresceva niente.

Nemmeno l’erba, figurarsi gli alberi!

Sollevò lo sguardo verso il cielo azzurro schermandosi gli occhi con la mano nell’osservare i due soli gemelli, uno azzurro e uno bianco, che illuminavano con la loro luce chiara quella giornata.

Non c’era che dire quel pianeta se confrontato al suo, e probabilmente a molti altri, era un vero paradiso.

Abbassò il capo e trattenne un’imprecazione.

Ai piedi degli alberi un fitto manto erboso si estendeva smeraldino, scintillante di tanti piccoli fiori dai colori dell’arcobaleno.

Magnifico.

Se non si fosse trovato a quasi venti metri dalla sua finestra.

Saltare da lì era impensabile.

Si sarebbe sicuramente ucciso.

Quanto agli alberi anche il più vicino era troppo lontano perchè potesse essergli di qualche utilità.

Imprecò aprendo ugualmente la finestra.

L’aria leggera e profumata gli accarezzo il viso con dolcezza, sorprendendolo.

Gli sembrava di imparare a respirare di nuovo.

Nessun odore di zolfo, niente puzzo di catrame e quel calore asfissiante che toglieva anche la voglia di provare ad uscire di casa.

Un basso suono elettrico lo destò dalle sue elucubrazioni

Posò una mano su quella che era, apparentemente, solo aria trovando la solida consistenza di un campo magnetico.

Sorrise cupo allontanandosi dal balcone, il suo ‘padrone’ sembrava aver calcolato anche il rischio che il suo investimento tentasse di togliersi la vita buttandosi di sotto, se infatti lo schermo magnetico permetteva all’aria profumata di scivolare nella stanza impediva a qualunque cosa più grossa di un moscerino di entrare e soprattutto di uscire.

Sospirò fissando la porta.

Niente maniglia.

Probabilmente si apriva e si chiudeva solo dall’esterno con tessera magnetica se non addirittura con lettura scanner delle impronte digitali.

Si spostò nel bagno ormai alquanto scettico.

C’era un’altra finestra che dava sull’ampio giardino ma anch’essa era schermata.

“Sono in trappola” sbottò tra se tirando un calcio ad una sedia su cui erano ordinatamente disposti degli asciugamani.

Non c’era modo di andarsene da lì.

Sospirò tornando nella camera da letto, lasciandosi cadere sul materasso con un lamento e un’imprecazione quando tutto il suo corpo protestò per quel gesto poco delicato.

Chiuse gli occhi sdraiandosi.

Anche se fosse riuscito ad uscire dalla dimora dell’imperatore dove sarebbe potuto andare?

Da quel che aveva sentito raccontare dagli altri schiavi l’intero pianeta era di proprietà di Kaede Rukawa.

Forse avrebbe potuto cercare di rubare una delle navicelle che si usavano per i viaggi interstellari, era sicuro che nello spazio porto ce ne fosse più d’una, il problema era che non aveva la minima idea di come usarle!

Infondo lui era sempre stato solo un operaio.

Almeno finchè Mitsui non era atterrato nella loro colonia.

 

Flash Back.

“Hey pel di Carota porta quel carico di catrame al deposito quattro!”

Hanamichi lanciò uno sguardo cupo al suo capo reparto domandandosi perchè il lavori fastidiosi venivano puntualmente affidati a lui.

La risposta era semplice.

Capelli rossi.

Quando era nato sua madre aveva dato solo uno sguardo al piccolo prima di dire chiaramente alle infermiere che non intendeva tenere quel figlio maledetto.

Era credenza comune infatti sul pianeta di Plamc che il rosso portasse sfortuna.

Come dar loro torto?

Tutto il loro pianeta era rosso.

Rossa la terra.

Rossa la lava delle migliaia di vulcani, che costellavano la superficie inabitabile e butterata, che puntualmente si riversava sulla terra distruggendo qualsiasi cosa avesse provato a crescervi.

Rosso il piccolo sole morente che illuminava con la sua luce sanguigna il cielo carico di polveri e gas irrespirabili.

Un inferno dove gli uomini vivevano come tante piccole formiche in enormi alveari di ferro, costretti a girare il più delle volte con una maschera d’ossigeno sul volto.

Plamc non era rimasto deserto per un semplice motivo.

Il rame.

Tutto quel dannato pianeta ne era pieno e, in un epoca come la loro dove la fibra di rame costituiva la componente principale anche per il più semplice dei meccanismi elettronici, ciò significava denaro.

A migliaia gli avidi erano morti su quel sasso instabile cercando di domarne le fiamme per tranne ricchezza, finchè non avevano scoperto come costruire miniere che non crollassero alla prima delle frequentissime scosse di terremoto e abitazioni che non colassero se investite dal magma incandescente.

Hanamichi lasciato alla mercè di quel pianeta ostile praticamente nel momento stesso in cui aveva imparato a camminare, aveva cominciato a lavorare in una delle tante miniere, all’inizio come porta messaggi, poi come garzone, infine come minatore vero e proprio.

Riscuotendosi da quei cupi pensieri raggiunse il magazzino e, preso uno dei 757 da carico, cominciò le manovre per la traslazione del cilindro di catrame al deposito gentilmente indicatogli dal suo capo.

Aveva da poco completato la manovra quando il suono della sirena fendette l’aria accolto da sbuffi e qualche commento.

Anche per quel giorno il lavoro era terminato.

Hanamichi, nonostante non amasse in modo particolare qull’attività noiosa e pesante, si diresse a passo lento verso gli spogliatoi degli operai.

Non aveva una famiglia a cui tornare a fine giornata e il piccolo appartamento che occupava non poteva essere definito come una casa nemmeno dal più pazzo degli ottimisti, nonostante tutti gli sforzi che il rossino aveva fatto per tentare di renderla tale.

Infondo lui che ne sapeva di come era fatta una vera casa?

Non ne aveva mai avuta una.

Dato che il suo, quanto mai basso stipendio, comprendeva di due buoni pasto, spendibili nella vecchi taverna poco fuori dagli ampi recinti della miniera, il rossino si diresse, dopo aver cambiato la sua tuta da lavoro, con un paio di pantaloni e una casacca, verso quel locale già troppo affollato.

Come al solito evitò gli scherni degli ubriachi mentre i sobri si guardarono bene dal fare commenti su di lui, almeno ad alta voce, dato che ormai il rossino poteva dire di aver rotto qualche costola ad ognuno di loro.

Si sedette ad un tavolo d’angolo attendendo che la cameriera gli portasse la cena, la donna naturalmente lo fece attendere pochissimo, desiderosa di liberarsi di lui il prima possibile, dopo aver lanciato l’ennesima occhiata inorridita alle sue ciocche carminio.

Era stato allora che la porta della locanda si era spalancata rivelando la figura di un uomo particolarmente attraente e dal vestiario decisamente troppo elegante per un luogo come quello.

Accompagnato da una splendida bionda dall’aria prosperosa e da un ragazzo piuttosto cupo l’uomo si sedette su un tavolo d’angolo ignorando tutti gli sguardi puntati su di lui, massaggiandosi quasi distrattamente la cicatrice che gli tagliava il mento prima di fare un cenno alla cameriera.

Ordinò da bere dicendole allegramente che doveva festeggiare una bella vendita e depositando con estrema nonchalanche un sacchetto di notevoli dimensioni sul tavolo di legno.

Il tintinnio che esso produsse fece rizzare le orecchie a più d’uno degli avventori.

Denaro.

E a giudicare dalla borsa doveva essercene parecchio.

Quell’uomo o era un’incosciente o era ben armato per girare con tutto quel contante, pensò il rossino mentre prendeva a consumare il suo insipido pasto.

Lo sfregiato non diede tuttavia peso agli sguardi sempre più attenti fissi su di lui prima di dire a gran voce “Da bere per tutti, offro io!”

La sua affermazione venne accolta da un coro di ringraziamenti dato l’assurdo costo degli alcolici in quell’angolo di galassia e da uno sguardo sempre più prudente di Hanamichi.

Quell’uomo aveva nello sguardo lo scintillio metallico di una lama ben affilata.

Era sicuro che avesse in mente qualcosa anche se non riusciva a capire cosa.

Le bottiglie passarono rapidamente di mano in mano mentre il volume dei discorsi si alzava.

Il nuovo avventore fu rapido e astuto nell’infiltrarsi tra loro portando con una serie di affermazioni mirate la discussione generale sul sesso.

Hanamichi ascoltava i suoi colleghi di lavoro vantarsi delle loro conquiste con cipiglio corrucciato.

Non riusciva a capire cosa stesse macchinando quell’uomo.

Lo vide chiaramente interessarsi ad un belll’uomo che faceva parte del reparto spedizioni e decise che era l’ora di togliere le tende.

Non gli piaceva la piega che stava prendendo la serata.

Tuttavia il suo alzarsi per uscire attirò l’attenzione di uno dei suoi ‘amici’ più cari, un ragazzotto che non perdeva occasione per sfotterlo e che se ne uscì con l’infelicissima affermazione: “Te ne vai di già Pel di Carota? Bhe certo tu non puoi discutere con noi di sesso dato che sei ancora vergine!!!” disse prima di scoppiare a ridere.

Mitsui si volse sorpreso a quell’affermazione, interrompendo a metà il discorso che stava facendo con l’uomo dal quale intendeva acquistare lo sperma per avere qualche bel nuovo esemplare da vendere sul mercato, voltandosi in attesa di vedere un bambino o tutt’al più un ragazzino.

Per poco non cadde dalla sedia quando Pel di Carota si rivelò essere un ragazzo altissimo, dal fisco tornito e dalla fiammante capigliatura carminio.

Gli occhi dorati del giovane si accesero di fuochi scarlatti a quell’affermazione facendo scattare un braccio a stringere il mal capitato per la gola sollevandolo senza apparente difficoltà di parecchi centimetri.

Mitsui era senza fiato.

Fece scorre lo sguardo sui muscoli delle braccia messi in evidenza da quel gesto e lasciati scoperti dalla logora casacca scura che tuttavia non riusciva a sminuire la prestanza di quel petto ampio.

Scivolò sulle lunghe gambe atletiche fasciate dai pantaloni neri prima di tornare a fissare la linea decisa della mascella, il taglio di quei due pozzi dorati accarezzati da quelle ciocche incredibili.

Mai... mai aveva visto niente di simile.

Sembrava l’emblema stesso del fuoco.

Un giovane leone dallo sguardo fiero e dal portamento regale.

 

“Non sono affari tuoi Rick” tuonò rivelando una voce bassa, quasi un ringhio.

 

Nel suo lungo girovagare per le galassie aveva visto milioni, miliardi di persone ma mai aveva incontrato una creatura simile.

Una belva da domare.

E quel pensiero gli aveva fatto balenare improvvisamente il nome anche del suo possibile compratore.

L’unico d’altronde che avrebbe potuto permettersi il prezzo che avrebbe chiesto.

Scivolando sinuoso tra i tavoli Mitsui raggiunse il ragazzo per il quale avrebbe rischiato una condanna per rapimento e gli posò una mano sul braccio.

La sua pelle era calda, vista da vicino quasi bronzea, e incredibilmente morbida.

Quel ragazzo valeva più oro di quel che pesava e non ne aveva la minima idea.

“Suvvia, suvvia non è il caso di scaldarsi” disse accomodante, separando i due e rifilando tra le mani del tizio di nome Rick un bicchiere colmo di liquore.

“Hisashi, Hisashi Mitsui” disse presentandosi alla sua ignara vittima.

Hanamichi fissò la mano tesa per un momento prima di stringerla “Hanamichi Sakuragi” mormorò.

“Bene Hanamichi vieni voglio presentarti Kirere, sai prima ti ha notato e mi ha chiesto di te” disse trascinando il ragazzo verso il tavolo dove stava la splendida bionda.

Hanamichi era visibilmente arrossito quando questa senza pudore aveva fatto degli apprezzamenti su di lui e Mitsui aveva mentalmente aggiunto un paio di zeri alla cifra che avrebbe chiesto mentre tentava di trattenersi dallo sfregarsi le mani.

Un po’ per nascondere l’imbarazzo un po’ per non fare una brutta figura davanti alla prima donna che non lo fissava guardando i suoi capelli per poi fuggire a gambe levate, Hanamichi cadde nella trappola accettando il liquore che Kirere gli porgeva.

 

Il rossino scosse il capo riscuotendosi dai suoi pensieri.

Era stato uno stupido.

Non era abituato all’alcool e questo gli era andato subito alla testa.

Mitsui non appena si era accertato che era abbastanza brillo da non divenire sospettoso gli aveva chiesto conferma dell’affermazione di Rick.

Avrebbe dovuto capire quando aveva visto lo sguardo che si erano lanciati i tre compari quando aveva sbuffato annuendo.

Ma ormai era già troppo ubriaco.

Mitsui l’aveva riempito di domande sulla sua famiglia, sul suo lavoro e il suo sguardo non aveva fatto altro che scintillare sempre più nello scoprire che quel giovane non solo non aveva legami ma che, se fosse scomparso, metà della colonia gli sarebbe stata riconoscente, dato che consideravano il colore dei suoi capelli un presagio di sfortuna.

E così bicchiere dopo bicchiere Hanamichi era infine crollato, solo per svegliarsi il giorno successivo con un grosso mal di testa e una catena al collo.

 

continua............                                                                                            

 

Back to FanFic  Back to Home