Oh my God!! 20                                 Back to Original  Back to Home

Il magazzino numero nove era un enorme cubo di cemento bianco, in mezzo ad una selva di altrettanti identici ed anonimi edifici, con una grossa saracinesca nera, e una porticina di metallo ammaccato, le due uniche entrate ed uscite dello stabile. Una serie di piccole finestrelle dava aria e luce all’interno del locale che puzzava di salmastro e di ferro arrugginito.

L’unico stanzone di cui si componeva l’ambiente era vuoto, a parte il furgoncino dei malavitosi, che era parcheggiato vicino ad una parete, e una pila di vecchi bancali di legno, ammassati disordinatamente sul fondo, fin quasi a toccare il soffitto.

Reck lanciò un occhiataccia ai due mocciosi che erano stati legati e messi a sedere sul pavimento, sopra una vecchia, logora, coperta, nell’angolo più lontano dall’ingresso. Avevano l’aria insolitamente tranquilla e rilassata per essere appena stati rapiti da un gruppo di energumeni armati fino ai denti.

Forse, si disse, erano ancora sotto shock.

Lasciò che lo sguardo scivolasse sui suoi ‘colleghi’, Carl, Stephan e Jimmy che, poco lontano dai ragazzini, giocavano a carte su un tavolinetto di plastica, di quelli pieghevoli che le famiglie usano per i pic-nic domenicali, in attesa di ordini dai loro superiori.

John e Warren, armati di mitra, stavano invece in piedi, accanto all’entrata, con l’aria scocciata di chi si aspetta una lunga giornata di nullafacenza.

Non che Reck li biasimasse, finchè i “grandi capi” non avessero dato loro disposizioni precise non c’era molto che potessero fare e dato che nessuno poteva sapere dove si trovavano, si sarebbe trattata di una noiosissima attesa.

Sperava che Fisher collaborasse da subito.

Odiava i mercanteggiamenti, e per quanto divertente potesse essere restituirgli il figlio un pezzettino alla volta fino a farlo cedere alle loro richieste, alla lunga era sempre una seccatura.

Non appena l’uomo avesse fatto passare le leggi che servivano loro, avrebbero liberato il moccioso.

O, più probabilmente, lo avrebbero ucciso.

Infondo dovevano mantenere fede al loro nome, no?

Erano o non erano La Muerte?!

Reck ghignò tra sé e sé, a quel pensiero, lucidando per l’ennesima volta il suo coltello preferito.

Era entrato nell’organizzazione da diversi anni ormai ma gli dava sempre un gran orgoglio farne parte.

Erano i più forti, i più temuti.

Bastava che lasciasse ad intendere di essere uno dei membri del gruppo per avere l’alcool migliore e le donne più belle.

Gli altri mafiosi si spostavano per lasciar libero loro il passaggio e c’era sempre un piccolo topo di fogna che non vedeva l’ora di fare qualche commissione per lui o di riempirlo di lusinghe solo per potersi poi vantare di essere suo “amico”.

Reck passò il panno sulla lama con soddisfazione prima di specchiarvisi per controllare di non avervi lasciato aloni.

Il lucido metallo gli rimandò l’immagine della sua faccia gongolante, della pila di bancali, poco più indietro alle sue spalle, e… dell’alta figura nera che vi era elegantemente seduta sopra.

L’uomo sussultò voltandosi di scatto, gli occhi sgranati.

Per un fugace istante si disse che era impazzito, pensò ad uno scherzo della fantasia, ad un illusione della luce che entrava di traverso dalle alte finestrelle.

 

Invece Lei era lì.

 

Alta e magra, troppo magra per un qualsiasi essere umano, la figura era avvolta da un lunghissimo manto di logora, polverosa, stoffa scura, i cui bordi sfilacciati si sbriciolavano in cenere fine, danzandole dolcemente attorno, in impalpabili volute di fumo grigio, sebbene nello stanzone non ci fosse un filo di vento.

L’ampio cappuccio le copriva il capo ombreggiando l’abisso nero, senza fondo, che si apriva laddove avrebbe dovuto scorgersi un volto.

Dall’enorme manica destra, che fluttuava nella brezza inesistente sfaldandosi in morbida polvere per ricongiungersi all’abito scuro solo per disintegrarsi ancora una volta, in una sequenza infinita che sembrava incatenata nel tempo, fuoriusciva un braccio, o meglio le lunghe, pallide, ossa di un braccio.

Tra le dita scheletriche, tenute insieme da nulla più che l’aria e la volontà sovrannaturale della creatura, Essa serrava il bastone candido di una falce dalla lama lucente.

 

Reck la fissò con gli occhi spalancati, il respiro bloccato nella gola riarsa, mentre il gelo s’impadroniva di ogni fibra del suo corpo.

 

La figura si accorse di essere stata notata e spostò il cappuccio vuoto nella sua direzione, permettendo al suo sguardo terrorizzato di affogare in quel nulla senza fine.

Gli sorrise.

Reck non scorse nulla di diverso nel buco nero che le si apriva al posto del cranio ma seppe, sentì, che stava sorridendo.

E la vide sollevare la mano sinistra, scheletrica parimenti a quella che reggeva la falce, per poi sventolarla in un muto “ciao-ciao” nella sua direzione.

 

L’uomo mollò il coltello e si lanciò, gridando con quanto fiato aveva in gola, verso la porta.

 

“Reck! Sei impazzit…” Warren, di guardia alla saracinesca, si era riscosso bruscamente dal suo tepore all’urlo del collega quando, nell’alzare il volto, le ultime parole gli erano spirate tra le labbra.

Anche lui l’aveva vista ora.

Reck lo ignorò, lanciandosi sulla porta, avventandosi sulla maniglia con disperazione folle solo per vedersela arrugginire tra le mani fino a sbricicolarglisi tra le dita in fine polvere rossa.

Si voltò pallido, gelato, tremando da testa a piedi, perfetta fotocopia dei due uomini ai suoi fianchi, per fissare ancora una volta la nera figura.

 

Era ancora lì.

 

Seduta sui vecchi bancali di legno come se fossero il suo personale trono.

Non si era spostata di un millimetro a parte per la mano sinistra che era alzata, l’indice puntato contro ciò che restava della serratura.

 

E Reck ebbe la certezza che quella porta non si sarebbe scostata di un millimetro, nemmeno se avesse provato a sfondarla con il furgone.

Il suono di uno sparo tagliò l’aria, strappandogli un sussulto, trascinando il suo sguardo su Carl, Stephan e Jimmy.

Avevano rovesciato il tavolinetto con le carte, nella fretta di alzarsi, ma mentre i primi due erano rimasti poi pietrificati, Jimmy aveva sollevato la sua automatica e aveva fatto fuoco.

 

Lei rise.

 

Lo avvertirono come il tintinnio di piccole ossa sul cemento, come il frusciare dei platani ai bordi di un cimitero in una notte d’inverno, come il ticchettio delle zampette di un grosso scorpione su un pavimento di marmo.

Più di un suono fu un brivido, gelido, viscido, che scivolò lungo le loro spine dorsali, come un serpente nero su una lapide bianca, una sensazione terrificante che visualizzò nei loro cervelli scarni necrologi con la data del giorno e il loro nome in grassetto sopra poche, vuote, parole.

 

Jimmy sparò di nuovo, gridando.

 

E come se quel suono fosse l’unica cosa reale a cui potevano ancora aggrapparsi Stephan e Carl fecero lo stesso.

John e Warren accanto a lui inforcarono il mitra e si unirono al fuoco.

Reck rimase immobile.

Aveva lasciato la pistola nel furgone e il coltello a terra poco lontano.

Rimase lì a guardare i proiettili diventare cenere contro il suo manto grigio, i colpi tramutarsi in polvere sulla sua falce lucente.

 

Anche lei rimase lì, immobile.

 

Finchè il caos degli spari finì, finchè nella sala risuonò solo il frenetico ‘click click’ isterico con cui Jimmy ancora si accaniva sul grilletto della sua pistola ormai scarica.

I bancali ai suoi piedi, tutt’attorno a lei, erano un colabrodo ma il suo mantello ancora le svolazzava attorno pigramente, come se nulla fosse accaduto.

 

Sorrise di nuovo, Reck lo sentì nelle ossa, nella pelle, in ogni cellula del corpo.

Sorrise e con, placida, quieta, lentezza si alzò per scendere dal suo scanno, ormai rovinato.

Planò con delicatezza come non pesasse che pochi grammi, atterrando con grazia al centro della sala e poi bettè un unico colpo, a terra, con il manico della falce.

 

Il legno bianco colpì il cemento producendo un suono simile a quello di un gong o al singolo rintocco di una mastodontica campana.

L’aria vibrò, allargandosi in onde concentriche di luce.

Sotto la loro lieve, delicata, carezza i sicari si afflosciarono come marionette a cui erano stati tagliati i fili.

 

Clavis li fissò per un istante ancora, dagli abissi del suo mantello, poi con un gesto noncurante fece scomparire la falce e  sollevò la mano scheletrica per abbassare il cappuccio.

La stoffa si disintegrò tra le sue dita ossee, svanendo in fumo, liberandolo dall’illusione in cui si era avvolto.

 

“La Muerte…” soffiò passandosi una mano tra i lunghi capelli neri “…insolenti

 

Victor che da tempo era tornato visibile sebbene la cosa fosse passata del tutto inosservata ai sicari impazziti, osservò il dio incredulo.

“Clhavishineriyas…” ansimò basito “…ma come…”

Il moro scosse le spalle “Una semplice allucinazione…” spiegò “…e guarda qui…” calciò uno degli uomini a terra che guaì ma non riprese i sensi “…svenuti” disse con disgusto.

“Co…cosa facciamo quando arriva la polizia?” balbettò Valery leggermente sconvolta dalla scena a cui aveva appena assistito.

“Si riprenderanno in tempo per farsi arrestare” mormorò Clavis con un sorrisetto maligno “Nel mentre io mi occuperò degli altri” soffiò minaccioso.

“A..aspetta… quali altri?” gracchiò Victor preoccupato.

Il Signore di Morvit ghignò e sollevò una mano stringendo le dita contro il lungo bastone bianco che si stava materializzando accanto a lui.

Quando la pelle candida sfiorò il legno chiaro questo riverberò e volute di fumo scuro avvolsero il dio tramutandosi in stoffa logora e polverosa, il mantello gli danzò attorno come dotato di vita propria mentre il cappuccio calava a velare l’abisso nero che aveva inghiottito il suo volto.

Clavis fece ticchettare le lunghe dita scheletriche sulla falce con cupa soddisfazione.

Indicò uno dei sicari inerti poco lontano “Lui conosceva la posizione della base, gliel’ho letta nella mente quando li ho toccati” soffiò con una voce sepolcrale e raschiante che costrinse Valery e Raily a fare un istintivo passo indietro “... andrò a fare visita ai loro capi…abbiamo una cosuccia chiamata ‘diritti d’autore’ di cui discutere”

Sentirono il ghigno nelle sue parole perché non c’era niente da vedere in quell’abisso nero che inghiottiva lo sguardo, sotto il suo cappuccio.

Victort aprì bocca per protestare ma l’alta figura ammantata di scuro era già scomparsa in uno sbuffo di fumo argenteo.

Avvertite Allan che tornerò tardi…” li informò la sua voce, nell’aria, prima che l’ultima spira lucente si spegnesse lasciando i tre nel grande capannone in compagnia di sei sicari svenuti muniti fino ai denti di armi scariche.

 

 

Il biondo Dio dell’Amore piombò in casa come un furia.

 

Tutto era andato come programmato.

La polizia aveva “salvato” Valery e Raily dalle grinfie di sei uomini singhiozzanti di terrore che blateravano cose assurde sulla Morte salita dagli inferi per vendicarsi della loro arroganza, i due poliziotti erano stati richiamati in caserma per presentare verbale e per quanto il commissario Dereck li avesse fissati con sguardo interrogativo e minaccioso per tutto il tempo alla fine aveva dovuto lasciare Allan e Zenan liberi di tornare a casa.

Il Dio dell’Amore era certo che prima o poi si sarebbe arreso e avrebbe accantonato tutta la vicenda come “strana”, dimenticandosene, anche perché, al momento, aveva ben altro per la testa, dato che i membri della Muerte stavano spuntando come funghi in ogni stazione di polizia pregando di essere arrestati subito.

 

“Clavis!” tuonò salendo i gradini delle scale due a due, talmente arrabbiato da dimenticarsi persino che poteva smaterializzarsi.

 

Quel cretino!

Era andato in giro ad usare il suo potere nelle sue condizioni!

E se si fosse sentito male?

Se gli fosse successo qualcosa?

Eppure gli aveva detto di restare a casa!

Al sicuro!

E di riposarsi!

Ma no, Sua Maestà non ascoltava mai!

Mai!

 

Spalancò la porta della camera da letto, certo di trovarvi il compagno, solo per posare lo sguardo su un letto vuoto.

Eppure Sefire gli aveva riferito che era rincasato pochi istanti prima che tornassero anche lui e Zenan e che era salito al piano superiore.

Il biondo si guardò attorno, per un momento confuso, prima di notare un pezzo di carta sul comodino.

Lo prese con furia scorrendo in fretta l’unica riga vergata nell’elegante, spigolosa, calligrafia del compagno.

 

“Ti avevo avvertito. Torno a Morvit.” lesse a voce alta, perplesso.

 

Che diavolo significava?

Bhe lo avrebbe scoperto una volta che avesse acchiappato Clavis.

Perché se sperava di cavarsela così si sbagliava di grosso!

Lanciò un veloce messaggio mentale a Zenan, informandolo che ‘inseguiva’ l’amante, e poi si smaterializzò.

 

A differenza di ciò che si era aspettato Allhanirayas non si ritrovò ai piedi dell’alto monte, dominio del suo compagno, ma poco oltre la soglia del grande maniero, laddove, quello che sembrava un milione di anni fa, lui e gli altri dei superiori erano stati bloccati dalla sua barriera quando stava morendo.

Per un momento Allan dimenticò la rabbia e la preoccupazione, per guardarsi attorno, sorpreso.

Per la prima volta sulla radura su cui sorgeva l’enorme castello che dominava Morvit… brillava il sole.

L’erba tutt’attorno era di uno splendido verde smeraldo puntellato dalle corolle colorate di piccoli fiori selvatici.

La brezza fresca, limpida, accarezzava le fronde degli alberi traendone un quieto mormorio, spingendo soffici, sonnacchiose, nuvole candide, nel cielo azzurro, mentre poco distante un torrentello che non aveva mai notato prima intonava il suo canto argenteo, saltellando brioso, accendendo l’aria di scintillii luminosi.

Anche il nero castello con le sue slanciate torri d’ebano e l’imponente, severo, mastio di gelida pietra scura sembrava un altro, abbracciato, avvolto, dal più mastodontico roseto che avesse mai visto.

Il rampicante si arrotolava su per i torrioni come un grosso serpente fatto di appuntite foglie stellate, di un incredibile color verde-argento, si stendeva sulla grande facciata d’ingresso, per poi piovere in una selva di boccioli dai merli, si insinuava tra i contrafforti e contornava le alte finestre, disegnando intricati arabeschi.

E tra le foglie, piccole, delicate rose bianche, candide come fiocchi di neve appena caduti dal cielo, schiudevano i loro petali lunari sulla roccia nera, accogliendo la carezza del sole.

Allan sarebbe probabilmente rimasto incantato, a fissare tanto splendore, all’infinito, se il suono del grande portone d’ingresso che s’apriva non l’avesse riportato alla realtà.

 

Sulla soglia però lo aspettava una nuova sorpresa.

 

Si era atteso di vedere Clavis invece incontrò lo sguardo curioso si due angeli gemelli.

Dimostravano una ventina d’anni ed erano di una bellezza androgina ed elegante che gli ricordò immediatamente quella dell’amante.

Avevano gli occhi a mandorla, di un tenue color lilla e i capelli lunghi fino a metà schiena ma mentre quelli del primo erano neri come l’ala di un corvo quelli del secondo erano candidi come piume di colomba.

Con stupore il Dio dell’Amore si accorse che entrambi avevano un ala sola, quella del moro era bianca, quella dell’altro era nera.

“Benvenuto” mormorarono all’unisono, rivelando due voci ugualmente melodiose.

“B.. buongiorno…” soffiò Allan leggermente spiazzato da tutte quelle novità la rabbia momentaneamente accantonata.

“Il mio Signore l’attende” dissero, nuovamente in perfetta sincronia, i due angeli, “Prego mi segua.”

Il biondo annuì e, ancora spaesato, entrò con loro.

 

Anche l’interno del castello era drasticamente cambiato.

Le catene e i lucchetti che chiudevano le grandi sale erano stati rimossi, Allan scorse oltre alcune soglie socchiuse, lunghissimi corridoi, sontuose stanze, mastodontiche biblioteche.

Un soffice tappeto scuro copriva il pavimento di marmo pallido, nelle nicchie, qua e là sparpagliate, rigogliose piante regalavano i loro colori alla nuda pietra.

Si aspettava che i gemelli lo conducessero alla sala del trono invece i due ragazzi presero un corridoio laterale e lo scortarono su per un’ampia rampa di scale fino a quelli che dovevano essere gli appartamenti padronali.

 

L’angelo moro bussò brevemente e poi gli aprì la porta e l’altro gli fece cenno d’entrare.

Allan individuò immediatamente Clavis seduto sul più grande letto a baldacchino che il biondo avesse mai visto, un libro tra le mani e la schiena appoggiata ad una montagna di soffici cuscini.

“Yami, Yuki, grazie, potete andare” mormorò il Dio della Vita e della Morte congedando gli angeli gemelli.

Questi gli regalarono un identico sguardo di pura adorazione, le guancie arrossate d’emozione. “Sì, mio signore” soffiarono all’unisono, prima di prendersi per mano e, sbattendo con perfetta sincronia la loro unica ala, allontanarsi per tornare alle loro faccende.

“Gli Arcangeli dell’Equilibrio” spiegò Clavis nell’incontrare lo sguardo interrogativo dell’amante “Possono volare solo abbracciati.” mormorò facendogli cenno di avvicinarsi. “Sono stati i primi a vedere la luce e anche i primi a perderla. Quando ho rinunciato alla mia anima per separare Vita e Morte hanno incatenato il mio castello e si sono assopiti qui…” soffiò sfiorando le coltri con la punta delle dita “…in fiduciosa attesa” disse sollevando lo sguardo viola per portarlo in quello verde dell’amante.

“Se non fosse stato per te probabilmente avrebbero atteso fino alla fine dei loro giorni”

Allan lo raggiunse sul grande letto e gli prese la mano tra le sue, intrecciando le dita dorate con quelle candide.

“Perché sei tornato qui?” chiese confuso.

Il moro gli sorrise dolcemente “Un po’ per gli scriccioli” mormorò con tenerezza indicando la porta da cui si erano allontanati gli angeli “Da quando sono svegli li ho lasciati sempre soli. Avevano bisogno di vedermi” spiegò “E un po’ perché…” gli lanciò un occhiataccia lasciando la frase in sospeso “Cosa avevi intenzione di dirmi una volta tornato?” domandò con una strana luce nelle iridi ametista.

 

E Allan ricordò improvvisamente perché era venuto fin lì e quanto era arrabbiato.

 

“Sei andato in giro ad usare il tuo potere nel tuo stato!” tuonò “Ti avevo detto di restare a casa!”

“Appunto” soffiò il moro, tranquillamente.

“Che significa ‘appunto’” sbottò Allan confuso.

Il Sovrano di Morvit gli piazzò un dito sotto il naso “Ricordi cosa ti avevo detto quando ti ho informato che aspettavo un bambino?” brontolò.

Il biondo bofonchiò qualcosa a disagio e Clavis sospirò.

“Non voglio che mi tratti come un invalido Allan, sto benissimo, davvero” lo rassicurò. “E ho intenzione di restarmene qui fin che non ti entrerà in quella testa bacata!”

“Ma Clavis…” protestò l’accusato con tono vagamente petulante.

“Niente ma!” lo interruppe il moro.

“Sono solo preoccupato” cercò di giustificarsi l’altro imbronciato.

Clavis sospirò, esasperato, allungando le braccia per attirarlo a sé. “Sono contento che ti preoccupi per me ma non serve…” gli disse fissandolo dritto negli occhi prima di posargli un bacio lieve sulle labbra “…ok?”

“Ok…” mugugnò sconfitto Allan prima di allungare il volto per ricambiare il bacio, questa volta spingendo la lingua tra le labbra morbide dell’amante.

Si ritrovarono ben presto sdraiati di traverso, sul grande materasso.

Allan si staccò dalle labbra del compagno per affogare in quelle sue incredibili iridi viola rese liquide dalla passione.

“A casa non mi aspettano per un po’…” soffiò con voce leggermente roca.

“Oh davvero?” miagolò il moro sistemandosi meglio sotto di lui, spostando il bacino per farlo strofinare con il suo.

“Da… davvero…” gli rispose a tono il Dio dell’Amore, trattenendo a malapena un gemito nel sentirlo muoversi in quel modo.

“Bene…” soffiò Clavis, prima di sollevare il viso per chiudere nuovamente la bocca del compagno con la propria.

 

 

Allan rimase a Morvit per i due giorni successivi prima che il Dio della Vita e della Morte accettasse, seppur sotto la minaccia di andarsene nuovamente se l’altro si fosse comportato da chioccia, di tornare con lui nel Dominio degli Uomini.

Yami e Yuki accettarono la notizia con più tranquillità di quella che Allan si sarebbe aspettato dato il modo assolutamente venerante con cui i gemelli seguivano il suo compagno ovunque andasse.

Clavis li salutò raccomandando loro il castello prima di posare un bacio gentile sulla fronte di entrambi.

I due arrossirono fino alla radice dei capelli, gli occhi lilla luminosi di felicità.

“Ve lo riporterò presto” promise Allan che in quel week end si era affezionato a quei due angeli che adoravano il suo compagno con l’innocente entusiasmo di due cuccioli fedeli.

I ragazzi si scambiarono uno sguardo muto e poi presa una decisione nota a loro soltanto fecero un passo in avanti e con aria leggermente imbarazzata si allungarono all’unisono posando un lieve bacio uno sulla guancia destra e l’altro sulla sinistra del Dio dell’Amore.

Allan rimase pietrificato per la sorpresa mentre Yami e Yuki lo fissavano con timidezza, le guance nuovamente arrossate.

Clavis ridacchiò regalando ai gemelli uno sguardo carico di tenerezza. “Bravi scriccioli” soffiò e Yami e Yuki si illuminarono di gioia, inchinandosi con grazia, un ultima volta, prima di prendersi per mano e tornare in volo verso il maniero.

“Andiamo?” chiese Clavis ed Allan annuì mentre un lento sorriso gli illuminava il volto.

 

 

Passarono i mesi e una nuova, quieta, routine si installò in casa Godman.

Raily era tornato a vivere con il padre anche se erano più le ore che passava da Valery che quelle che trascorreva nella villa dei genitori.

Zenan aveva deciso di restare e godersi la, relativamente tranquilla, vita ‘umana’ con Sefire che continuava ad andare a scuola con gli altri due ragazzi.

Victor invece aveva deciso di tornare nel Dominio Celeste informandoli con tono di sfida che presto anche lui si sarebbe trovato una “moglie” (fortunatamente per lui Clavis dormiva al momento dei saluti e non l’aveva udito, Sefire invece aveva provato ad incenerire il dio della Forza, le guance rosse come due peperoni, senza però riuscirci).

Il dio della Vita e della Morte passava la settimana con Allan e il week end a Morvit dove trascinava il compagno, e il più delle volte, alla faccia dei regolamenti divini, anche tutti gli altri.

Sefire aveva fatto presto amicizia con Yami e Yuki e faceva volentieri loro compagnia mentre Zenan aiutava i due angeli a recuperare il tempo perduto.

Erano diventati una specie di famiglia allargata e se non fosse stata per un'unica incognita Allan si sarebbe potuto tranquillamente definire l’uomo più felice della terra… o meglio il dio più felice del cielo.

Già perché il suo silenzioso compagno continuava ad addormentarsi in giro per casa, o qua e là per il castello, ma non aveva saputo dargli nessuna rassicurazione diversa dai suoi soliti “Va tutto bene, smettila di agitarti” che avevano su di lui un effetto diametralmente opposto alle intenzioni del moro.

Aveva provato a chiedere a Zenan che però aveva dovuto ammettere di essere altrettanto ignorante in materia.

Aveva passato ore a consultare i tomi contenuti nell’antichissima libreria del compagno senza però riuscire a trovare nessuna informazione utile.

Avrebbe dovuto mettersi l’animo in pace ed aspettare, come gli aveva suggerito Clavis, ma, semplicemente, non ne era capace.

Senza contare poi che, ormai, stava esaurendo le scuse con cui evitare di presentarsi dinanzi al Consiglio per annunciare loro che il Dio della Vita e della Morte gli avrebbe dato un figlio.

Zenan ormai glielo ricordava ogni giorno.

 

Tra gli impegni della quotidiani, umani e divini, l’anno scolastico era quasi giunto al termine e l’estate era ormai alle porte.

 

Allan anche quella sera aveva lottato con le sue preoccupazioni prima di riuscire ad addormentarsi ma in quel momento se ne stava finalmente nel mondo dei sogni, con il compagno accoccolato al suo fianco, quando qualcuno lo scosse.

“Allan…”

L’interpellato mugolò qualcosa, affondando il viso nel cuscino, sperando che la voce scomparisse.

“Allan…”

Il dio sospirò socchiudendo le palpebre lanciando un occhiataccia al display luminoso della sveglia.

 

Erano le due del mattino!

 

“Sono le due…” borbottò con voce assonnata, fosse mai che lo scocciatore decidesse di cambiare idea nel venirlo a sapere.

Clavis ridacchiò passandogli con dolcezza una mano tra i capelli “Lo so, ma svegliati lo stesso, vuoi?”

Il biondo che già si stava assopendo di nuovo cullato dalle carezze dell’altro, fece uno sforzo sovraumano per tenere le palpebre sollevate.

“Cosa c’è?” chiese mettendosi a sedere tra le lenzuola arruffate.

“Voglio che mi porti a Morvit” mormorò il moro.

“Adesso?!” sbuffò ma scontrandosi con l’occhiataccia dell’altro annuì. “Ok, ok.” borbottò alzandosi e vestendosi con un gesto.

Clavis gli sorrise e gli tese le braccia.

Allan lo fissò perplesso.

Si era aspettato che l’altro si liberasse a sua volta del leggero pigiama che indossava e poi si alzasse per andare con lui ma Clavis non si era mosso dal letto.

La sua mente, che si stava faticosamente liberando dalle maglie del sonno, gli ricordò che gli aveva detto ‘voglio che mi porti a Morvit’.

Che senso aveva che fosse lui a portarcelo?

Clavis era capacissimo di andarci da solo.

“Clavis…” cominciò perplesso.

Ma il Dio della Morte scosse il capo “Prendimi in braccio Allan e portami a casa” ordinò.

Confuso il biondo decise comunque di assecondarlo e presolo tra le braccia si smaterializzò.

Con sua sorpresa, comparirono direttamente nella camera da letto padronale.

Allan depose il compagno sull’enorme letto a baldacchino con delicatezza.

“Mi spieghi che succede?” chiese leggermente preoccupato.

“Fra un momento” mormorò l’amante prima di chiamare Yami e Yuki.

I due angeli arrivarono in un battito d’ali, i capelli arruffati e l’aria leggermente confusa di chi è si è appena svegliato.

“Portatemi una sedia, dell’acqua e i sali” ordinò il moro e i gemelli annuirono in fretta, sparendo oltre la porta.

“A cosa ti servono i sali?” chiese sempre più sbalestrato il Dio dell’Amore.

Clavis gli porse un sorriso gentile “Sono per te.”

“Per me?” domandò Allan che cominciava a credere che si trattasse di uno strano sogno.

Sicuramente era ancora a casa, a letto, e stava dormendo.

La situazione era troppo assurda per avere una qualsiasi altra spiegazione logica.

 

“Tuo figlio ha deciso di nascere adesso”

 

La voce di Clavis attraversò i confusi ragionamenti del biondo con la potenza devastante di uno tsunami d’acqua ghiacciata.

 

Allan boccheggiò, incapace di respirare per un interminabile istante mentre quella notizia affondava nel suo cervello come una pugnalata.

 

Clavis…

Clavis stava per…

 

La stanza prese ad ondeggiargli pericolosamente attorno e fu infinitamente grato che Yami fosse appena arrivato con una poltrona, sulla quale si accasciò, privo di forze, e che Yuki gli stesse sventolando una boccetta di sali sotto il naso.

Altrimenti, ne era certo, sarebbe svenuto.

 

Non appena  i mobili smisero di ballare la rumba intorno a lui Allan balzò in piedi per tornare accanto al compagno.

“E me lo dici così?!” gracchiò.

Clavis ridacchiò “Come te lo dovrei dire?” gli chiese facendo cenno a Yami che spinse la sedia vicino al letto in modo che il Dio dell’Amore potesse tornare a sedercisi sopra.

“Calmati, va tutto bene” tentò di rassicurarlo il moro notando quanto il compagno tremasse.

Ma il signore di Amhor era tutto tranne che calmo.

“Ci serve un medico!” esclamò balzando in piedi per l’ennesima volta, guardandosi in giro forsennatamente come se si spettasse di trovarne uno sotto il letto o di vederlo spuntare da dietro le lunghe tende che velavano le finestre.

“Dobbiamo chiamare Zenan! Zenan DEVE sapere cosa fare e…”

“Non mi serve un medico, e neanche Zenan, siediti Allan” lo interruppe Clavis.

“E se qualcosa va storto e se ti senti male e se..:”

Il moro sospirò pesantemente “Siediti tesoro e fa dei respiri profondi, forza” lo esortò.

Seppure a malincuore l’altro si lasciò cadere di nuovo sulla poltrona traendo un paio di lente boccate d’aria.

“Bravo” lo lodò Clavis con tenerezza “Respira, va tutto bene” mormorò ma la sua voce si affievolì sull’ultima parola e un nanosecondo più tardi il biondo era di nuovo in piedi accanto a lui.

“Clavis?!” lo chiamò preoccupato.

“Oh cielo sei impossibile, mi arrendo!” sbuffò divertito il Sovrano di Morvit ma il sorriso che aveva sulle labbra si tramutò in una smorfia di dolore un secondo più tardi.

Il dio della Morte si lasciò sfuggire un lamento serrando le palpebre ed Allan sentì il panico scorrergli nelle vene come acido liquido.

“Amore…” lo chiamò in ansia.

Il moro allungò una mano e Allan la strinse forte nelle sue sentendosi totalmente inutile.

“Va tutto bene” soffiò Clavis, ma respirava con affanno ora e il suo corpo era teso come una corda di violino.

Allan stava per chiedergli come diamine faceva a dire che ‘andava tutto bene’ quando si accorse che la mano tra le sue stava diventando calda.

Troppo calda.

Il Dio della Vita emise un flebile gemito, agitandosi tra le coperte e la sua pelle pallida divenne prima candida poi cominciò ad emettere una fievole, morbida, luminosità.

“Clavis…” gracchiò il biondo spaventato ma non ottenne risposta.

Clhavishineriyas sembrava ormai incapace di udirlo.

 

Allan non avrebbe saputo dire quanto durò.

 

Forse ore, forse giorni, il tempo sembrava non passare mai eppure scorrere troppo in fretta scandito dai battiti impazziti del suo cuore.

La pelle del compagno era ormai bollente e il suo corpo emetteva ondate di luce incandescente che si infrangevano contro le pareti della stanza, sfrigolando, al ritmo dei suoi ansimi spezzati.

Clavis sembrava aver perso conoscenza, il suo corpo si tendeva e dalle labbra gli sfuggivano fragili gemiti di dolore ma non aveva più aperto gli occhi.

Allan si ripromise per l’ennesima volta di pestarlo a sangue quando tutto fosse finito.

Alla faccia dei suoi “va tutto bene”!

Avrebbe voluto urlare di frustrazione nel vederlo in quello stato senza riuscire a fare niente per aiutarlo.

Giurò a sé stesso che quella sarebbe stata l’ultima, dannata, volta che teneva il compagno, agonizzante, tra le braccia.

Dio dell’Amore o no, anche il suo cuore aveva un limite di sopportazione!

Yami e Yuki stavano dall’altra parte del giaciglio, gli occhi lilla carichi di preoccupazione fissi sul loro signore.

A turno gli cambiavano una pezzuola bagnata sulla fronte, un attività che sembrava dare più sollievo ai due angeli, consentendo loro di avere l’illusione di fare qualcosa di utile, che al dio sofferente.

E poi quando Allan cominciava a credere che quell’agonia sarebbe continuata all’infinito la mano tra le sue si contrasse con forza, Clavis si inarcò con un grido e la luce detonò.

Fu una piccola esplosione che lasciò Allan accecato per diversi istanti finchè i suoi occhi non riuscirono a mettere a fuoco nuovamente.

Clavis ansimava faticosamente, accasciato sulle lenzuola ad occhi chiusi, la pelle pallida, sudata, le ciocche nere e bianche sparse disordinatamente sui cuscini.

Sopra di lui, sospesa sul suo petto, pulsava una piccola stella.

“Aiutami…” gracchiò il moro con voce provata, socchiudendo a fatica le palpebre e Allan si affrettò ad sorreggerlo, sollevato di trovarlo nuovamente cosciente, consentendogli di mettersi seduto, la schiena contro i cuscini.

Clavis vi si appoggiò con un sospiro esausto prima di tendere le mani verso il globo lucente.

Questi planò obbedientemente tra le sue braccia dove si allungò e si allargò fino a plasmarsi nel corpicino di un neonato dalla pelle dorata e dai morbidissimi riccioli biondi.

Il moro lo sollevò con attenzione, un emozione indescrivibile nelle iridi d’ametista, per soffiargli poi, delicatamente, sul volto.

Il piccolo storse il nasino, come se il fiato del genitore gli avesse fatto il solletico, e poi spalancò due grandi occhi viola scoppiando a piangere.

Clavis rise sommessamente appoggiandoselo al petto, cullandolo piano.

“Shh… va tutto bene” mormorò debolmente “…è finita, puoi riposare adesso” lo quieto con voce stanca e il neonato si tranquillizzò subito strofinando il visetto contro di lui.

Allora il moro sollevò il volto e regalò all’amante un sorriso carico di tenerezza.

“Allan non piangere tu adesso” lo ammonì con dolcezza.

Il biondo si asciugò le lacrime che gli scivolavano lungo le guance incapace tuttavia di fermarle mentre il suo sguardo li abbracciava .

“Vieni qui” lo chiamò Clavis e Allan gli si avvicinò con cautela quasi avesse timore di infrangere quella visione con la sua presenza.

“E’ un maschietto” mormorò il moro sollevando il neonato per sfiorargli la punta del naso con la sua.

Il piccolo rise riempiendo la stanza di un suono argentino allungando le manine per afferrare una lunga ciocca scura che gli era caduta sul pancino.

Clavis gliela sfilò delicatamente dalle mani prima di porgerlo ad Allan.

“Ecco…” disse “…saluta papà” ghignò e il piccolo tese gioiosamente le braccia verso il biondo emettendo una serie di suoni incomprensibili.

Allan prese il figlio come se fosse fatto di cristallo e Clavis non potè fare a meno di sorridere dolcemente, quando vide nuove lacrime bagnare gli occhi verdi del compagno.

Con un sospiro il Dio della Vita e della Morte si accasciò contro i cuscini, distrutto, osservando Allan che cullava il figlio e Yami e Yuki che, timidamente gli si erano avvicinati e che facevano capolino da dietro le sue spalle per osservare il novo arrivato.

Con un lieve sorriso sulle labbra il moro scivolò in un sonno esausto.

 

 

Clavis riemerse dalla semi incoscienza in cui era caduto solo a metà del giorno successivo.

Quando si mosse debolmente tra le coltri socchiudendo le palpebre si ritrovò a specchiarsi in un preoccupato sguardo di smeraldo.

“Ciao..” soffiò con voce provata.

Allan gli passò dolcemente una mano tra le ciocche nere e bianche.

“Come stai?” chiese piano, con quel tono attento e basso che si usa con i malati.

Il dio della Vita e della Morte gli sorrise debolmente “Un po’ sottosopra” dovette ammettere.

“Alla faccia dei tuoi ‘va tutto bene’!” brontolò il biondo “Mi hai fatto morire di paura!”

“Scusa” mormorò Clavis stancamente “E’ stato più doloroso del previsto…” fu costretto a concedergli.

Allan masticò un imprecazione tra i denti riprendendo a passare con dolcezza le dita tra i capelli chiaro scuri dell’amante.

“Clavis…” lo chiamò piano notando che l’altro si stava nuovamente addormentando.

“Hm...” ebbe appena la forza di mugugnare il moro.

“Yuki ha dato al bambino uno strano biberon, ha detto che l’avevi preparato tu, qualche giorno fa”

L’amante annuì appena “Si è già svegliato per mangiare?” chiese confuso.

Allan sospirò “Tesoro hai dormito per quasi un giorno intero”

“Oh…” soffiò sorpreso e il biondo decise che lo avrebbe strangolato, non appena si fosse rimesso in forze, accantonando la questione, almeno per il momento, per passare ad un problema più impellente.

“Siamo bloccati dentro al castello” lo informò “C’è una specie di barriera… ho provato a contattare Zenan per dirgli cos’era successo ma non ne escono nemmeno i pensieri. Yami e Yuki non sono riusciti a fare niente”

Il moro lo fissò perplesso poi parve concentrarsi un momento, ritrovandosi a corrugare la fronte.

“Sono stato io” ammise “Non me n’ero accorto. Devo averlo fatto inconsciamente” disse e sollevò una mano con un gesto secco.

Allan sentì quasi fisicamente lo scudo andare in frantumi e voleva chiederne spiegazioni al compagno ma lo sforzo sembrava essergli costato tutte le energie che era riuscito a recuperare perché Clavis era nuovamente scivolato in un sonno profondo.

Non gli fu comunque dato il tempo di preoccuparsi perché un instante più tardi la voce mentale del Dio della Sapienza fece irruzione nella sua testa.

“Allan! Maledizione sono quattro giorni che sei sparito nel nulla! Che diamine succede?!”

 

Per un momento il biondo non rispose, senza fiato.

 

Quattro giorni?!

Quattro!?

Quindi il bambino aveva impiegato quasi tre giorni per nascere?!

 

Per forza Clavis era ridotto in quello stato!

 

Alla faccia del ‘stai calmo, va tutto bene’!

Oh lo avrebbe ucciso! Si ripromise furente, rimboccando con dolcezza le coperte per tenere al caldo l’amante.

 

“Clavis ha avuto il bambino” informò invece l’amico, ricacciando rabbia e ansia.

Dall’altra parte ci fu un momento di stupefatto silenzio.

“E come stanno?” chiese con cautela Zenan.

Allan sospirò “Il piccolo sta benissimo, Clavis è esausto”

“Lascialo riposare” mormorò il signore di Saphe “Sono sicuro che si rimetterà in fretta e appena starà meglio verremo a trovarvi”

Allan annuì silenziosamente e scambiata qualche altra raccomandazione con l’amico chiuse il collegamento per tornare a vegliare sull’amante addormentato.

 

 

Clhavishineriyas se ne stava a letto, a distanza di due giorni era già tornato praticamente in piena salute ma Allan era stato categorico in merito, e, per una volta, il moro aveva deciso di darla vinta al suo lato ‘chioccia’.

Dalla sua postazione privilegiata il dio osservava Zenan, Sefire, Raily, Valery e Victor attorniare il compagno osservando con occhi enormi il pargoletto biondo tra le sue braccia.

Aidan, così avevano deciso di chiamarlo, era un esatta copia del Dio dell’Amore fatta eccezione per gli occhi dello stesso viola dei suoi, e da bravo protagonista di tutta la vicenda, sembrava godersela un sacco nell’avere l’attenzione di tutta quella gente.

 

Clavis sospirò prospettando tempi difficili.

Sarebbe cresciuto terribilmente viziato.

 

“E bellissimo...” soffiò commossa Valery osservando il fratellino.

“E’ tutto merito di Clavis” disse Allan con orgoglio lanciando uno sguardo adorante al compagno.

Il moro ridacchiò “Giusto, è tutto merito mio” annuì le iridi ametista cariche di dolcezza nell’accarezzare i due.

“Però Allan adesso davvero non ti puoi più esimere dal presentarti davanti al consiglio” lo ammonì Zenan e il biondo fu costretto ad annuire.

“Convocali qui” suggerì Clavis sistemandosi meglio tra i cuscini con l’aria di chi si prepara a godersi lo spettacolo.

“A…adesso?!” balbettò Allan impallidendo.

Il moro scosse le spalle con indifferenza “Perché no?” ghignò.

“Ma… tu devi riposare e forse non è il momento e…” il Dio dell’Amore deglutì a vuoto alla ricerca di una scappatoia.

Zenan scambiò uno sguardo d’intesa con Victor e poi entrambi chiamarono gli altri sette dei superiori.

Con altrettanti, colorati, fasci di luce Isabhellerien, Ascarot, Laebell, Ferieeen, Gabryl, Plesea e Lilirias comparvero nella stanza.

 

I sette si guardarono attorno, confusi.

 

“Dove siamo?” chiese perplessa la Dea della Bellezza.

“Benvenuti a Morvit nobili ospiti” mormorarono in coro Yami e Yuki dalla loro postazione alla destra del grande letto, accanto a Clhavishineriyas.

“Questa è Morvit?” chiese perplessa Laebell ma ogni ulteriore domanda venne stroncata dal rauco “QUELLO che cos’è?!” di Ascarot che aveva appena notato il bambino tra le braccia di Allan.

“Signori…” mormorò Clavis con una luce indecifrabile nelle iridi viola “…lasciate che vi presenti Aidan… nostro figlio” soffiò.

Quattordici paia d’occhi passarono da Clhavishineriyas al neonato per piantarsi infine in volto ad Allhanirayas che non trovò nulla di meglio che porgere loro un piccolo sorriso di scusa.

La mascella della stoica Gabryl, Dea della Giustizia, precipitò al suolo, Isabhellerien perse gran parte della sua bellezza nello strabuzzare gli occhi incredula, Plesea sembrò tutto tranne la Dea della Pace nell’esclamare: “COSA?!”, il piccolo Lilirias, Dio della Gioia, per la prima volta in tutta la sua vita rimase semplicemente pietrificato mentre Laebell e Ferieeen non riuscirono a far altro che boccheggiare come pesci fuor d’acqua.

Ma il più preoccupate di tutti era l’antico, compassato, severo Ascarot, Custode del Tempo.

Il vecchio dio ansimò, rantolò ed infine gracchiò un flebile, vagamente isterico: “Oh mio dio!” e perse i sensi.

 

Fine…

 

 

Scleri dell'autrice (concediamoglieli per questa volta... nd.Pippis)

 

Naika: finitaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa! *.* Non mi pare vero!

Pippis: e lo dici tu? pensa a quei poveri disgraziati che la leggono! >.<

Naika: grazie! Grazie a tutti per la pazienza! (_ _)

Pippis: ok... adesso vai con le altre! è.é

Naika: ç___ç è proprio vero... la felicità dura un attimo -.-'''

 

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