Passato        Back to FanFic  Back to Home

 

Hanamichi emise un sospiro nel girare la chiave nella toppa.

La serratura della piccola porta scheggiata scattò, riempiendo lo stretto atrio vuoto con il cupo clack del chiavistello che rientrava.

Depose la giacca della divisa scolastica sull’appendino e lasciò cadere la borsa a fianco delle scarpe.

Avrebbe dovuto buttare in lavatrice gli abiti che aveva usato per l’allenamento ma quel giorno... quel giorno non ne aveva la forza.

Si lasciò cadere sul divano, unico arredo del salotto a parte il piccolo televisore in bianco e nero.

Non pensava che quella notizia avrebbe avuto un simile peso su di lui.

Infondo lui odiava Rukawa, no?

Però ora c’era quel malessere nel suo stomaco che lo avvertiva che c’era qualcosa di sbagliato in quella sua convinzione.

Eppure ne era sempre stato così sicuro.

Rukawa?

Chi era Rukawa per lui?

Nessuno.

Anzi peggio ancora.

Una seccatura.

Un ostacolo!

E allora perchè?

Perchè quando il mister Anzai aveva orgogliosamente detto loro che il volpino era stato scelto per fare un anno di studi in America, presso una scuola nota per la sua squadra di basket, lui si era sentito così... così...

 

Male.

 

Non era la stessa sensazione che aveva provato nel ricevere un pugno alla stomaco eppure i suoi effetti sembravano ben più devastanti.

Era una leggera nausea, caldo e freddo nello stesso momento, stupore, rabbia, rimpianto, una miriade di sentimenti che si erano mescolati gli uni sugli altri, la sensazione di qualcosa che gli era stato sottratto.

Sì, era quella la giusta definizione.

Si sentiva come se gli avessero portato via qualcosa che considerava suo.

Rukawa?

O la possibilità invece di andare lui, il genio del basket, in America al posto dello stupido volpino?

Sospirò lanciando uno sguardo alla foto posata sopra la tv.

“Non capisco” mormorò fissando per un momento lo sguardo sorridente di suo padre che abbracciava una donna dalla fiammeggiante chioma rossa, messa ancor più in risalto dal velo candido dell’abito da sposa.

L’orologio appeso in cucina suonò le cinque ricordandogli che il tempo continuava a scorrere impietoso, ignorando anche la confusione del genio e, maledicendosi per essersi lasciato così influenzare da quella strana sensazione di malessere, Hanamichi si alzò sbrigandosi a raccogliere la sua divisa da cameriere e uscire di corsa dall’appartamento.

“Non correre teppista!” gli gridò dietro l’inquilina del piano di sotto, una vecchietta acida e piuttosto bisbetica che non nascondeva certo il suo astio per lui.

Sakuragi le lanciò un insulto in velocità prima di uscire sbattendo la porta e prendere la bicicletta .

Si fiondò lungo le strade trafficate, sfrecciando tra le auto con maestria e un po’ d’incoscienza, ricacciando quella strana sensazione in un angolo della sua mente.

Aveva già tante, troppe, cose a cui pensare per permettere anche a Rukawa di infilarsi nella sua testa.

 

La sensazione di disagio era ancora li, due settimane più tardi mentre osservava quell’aereo sollevarsi in volo.

Rukawa era partito.

“Bhe è solo un anno” borbottò tra se, allontanandosi, non visto, dai suoi compagni di squadra.

Si chiese perchè avesse sentito la necessità di pronunciare quelle parole a voce alta.

Perchè improvvisamente un anno gli sembrasse un’eternità.

Erano sempre 365 giorni non erano diventati per magia 730 eppure a lui sembravano raddoppiati d’un tratto.

Alla fine aveva acconsentito alla richiesta di Ayako e anche lui era andato a salutare la partenza del suo acerrimo nemico.

E mentre aspettava che chiamassero il suo volo, standosene un po’ in disparte, simulando insofferenza e noia, si era soffermato per un momento a guardarlo.

A guardarlo davvero.

Era la solita, spelacchiata volpaccia.

Non aveva niente di diverso dalle altre volte che l’aveva visto.

Il bagaglio a mano su una spalla.

La giacca nera che gli arrivava a metà ginocchio su un paio di jeans blu scuro.

I capelli spettinati.

Gli occhi blu determinati anche se un po’, irrimediabilmente, assonnati.

Aveva riso quando la Signora Rukawa aveva tentato di pettinarlo mentre il Signor Rukawa si prodigava in consigli.

Era rimasto colpito dai genitori della volpe.

Erano due persone molto gentili e cordiali.

Se li aspettava più simili al figlio, anche se, almeno fisicamente il volpino era la copia del padre.

Se n’era andato poco dopo.

Quando aveva visto la madre del suo compagno di scuola cominciare a piangere e Kaede aveva sorriso per rassicurarla.

Non aveva parlato.

Ma aveva sorriso.

E Hanamichi aveva avuto l’acuta consapevolezza che quello fosse un gesto che il suo compagno di squadra regalava solamente alle persone che amava profondamente.

Lo aveva turbato quel sorriso.

Non ricordava mai di aver visto una simile dolcezza negli occhi del volpino.

Improvvisamente era come se tutto il suo ghiaccio si fosse sciolto ed era... era diventato bellissimo.

Non nel senso fisico.

Per quanto gli rodesse ammetterlo la bellezza di Rukawa non era in discussione.

Però era sempre così freddo.

In quel momento invece... per un momento... per un secondo... aveva visto la sua bellezza interiore.

Quella luce che non credeva Rukawa possedesse e che invece era solo gelosamente custodita.

E dentro di lui qualcosa era scattato con il suono secco di una serratura che si chiude.

Di una manetta che si blocca.

Di un legame che t’imprigiona.

Hanamichi scosse il capo allontanando quel pensiero.

Solo perchè aveva scoperto che Rukawa era umano non voleva dire che avrebbe smesso di odiarlo.

E poi infondo, si disse, la sua era solo invidia.

Perchè lui non l’aveva nemmeno conosciuta sua madre e aveva perso fin troppo presto suo padre, invece Rukawa li aveva entrambi, lì per lui, a preoccuparsi, a proteggerlo, ad aiutarlo e sostenerlo.

Chissà quanti di loro avrebbero immaginato che il loro casinista scimmione era orfano da ben due anni ormai.

Salì sul treno guardando l’orologio e sospirò.

Sarebbe arrivato in ritardo al lavoro.

Ancora una volta Rukawa venne ricacciato in un angolo della sua mente insieme a quella strana sensazione che ancora non sapeva definire.

 

“Hanamichi”

Il rossino si voltò verso la loro manager che stava entrando in quel momento in palestra.

Aveva ancora la sacca in una mano, diretto agli spogliatoi, dove si sarebbe cambiato per cominciare l’allenamento.

“Sì?” chiese perplesso.

“Ti vogliono in presidenza.” gli comunicò la moretta corrucciata.

Hanamichi sollevò un sopracciglio sorpreso.

Non ricordava di aver combinato niente di particolare.

Da quando era partito il volpino, e ormai era già passato un mese, non faceva nemmeno più a pugni.

Non c’era nessuna soddisfazione se il suo antagonista non era Rukawa.

Da quando se n’era andato quella strana sensazione continuava a tormentarlo di tanto in tanto.

Puntualmente Hanamichi la scacciava ma essa si ostinava a tornare e con essa piccoli frammenti di ricordi.

Cose stupide, che non pensava di aver notato.

Rukawa che si allenava.

Rukawa che andava in bicicletta.

Rukawa che dormiva abbandonato sulla terrazza.

Rukawa che faceva la doccia.

Come sempre i suoi pensieri s’infransero su quell’immagine.

Scosse il capo con forza maledicendosi mentalmente per essere ricaduto in quella cosa.

Ultimamente non faceva che pensare a quello stupido e non ne capiva il motivo.

Ora che il volpastro non c’era aveva campo libero con Haruko eppure, proprio ora che lui non era più tra i piedi, Hanamichi aveva cominciato a rendersi conto che la ragazza gli piaceva certo, ma semplicemente come un’amica, una persona fidata con cui ridere e passare qualche momento piacevole.

Niente di più.

E non riusciva a spiegarsi allora tutte le energie che aveva speso in quel primo anno di scuola.

Perchè litigare così spesso con Rukawa allora?

Perchè desiderare di farlo ancora ora, se non per Haruko?

Perchè ogni volta che pensava a quello stupido chissà dove in America gli prudevano le mani?

Myaghi gli battè una consolatoria pacca sulle spalle, riscuotendolo dai suoi pensieri.

“Buona fortuna” gli augurò conoscendo l’antipatia del preside per Hanamichi e al sua banda.

Il rossino sollevò gli occhi al cielo con fare melodrammatico prima di dirigersi verso la presidenza.

Il loro piccolo e pelato preside non gli aveva mai fatto paura nonostante tentasse di mettergli i bastoni tra le ruote in tutte le maniere possibili.

E i suoi voti erano pure migliorati nell’ultimo periodo dato che, pur di non pensare a quello che stava facendo Rukawa in America, era disposto persino a studiare.

Sì, perchè anche quando era a casa da solo, la sera, e tornava stanco per gli allenamenti e le ore passate a correre tra i tavoli della pizzeria dove lavorava per guadagnarsi da vivere, il suo ultimo pensiero finiva sempre per essere “Chissà che fa ora la volpaccia?”

Bussò e aprì la porta quando fu invitato ad entrare.

C’era la sua vicina di casa seduta davanti alla scrivania del preside e un uomo piuttosto corpulento accanto a lui.

Hanamichi trattenne il fiato mentre sentiva un gelo improvviso attanagliargli le ossa.

<No> pregò con tutte le sue forze <Ti prego no.>

“Sakuragi vieni avanti” disse il preside con un fasullo sorriso benevolo.

Hanamichi sudava.

Sudava freddo.

Come se le parole dell’ometto avessero catalizzato su di lui l’attenzione delle altre due persone presenti queste si voltarono lentamente.

E Hanamichi seppe che ciò che più temeva si era avverato.

L’uomo accanto al preside si alzò, assestandosi la giacca del completo scuro che a malapena riusciva a dargli un aria di perbenismo, “Sono mister Okura” si presentò tendendogli una mano callosa.

Hanamichi la prese stringendola senza una parola.

Non riusciva a sentire.

Non riusciva a pensare.

Quell’uomo era il suo incubo diventato realtà.

Un’assistente sociale.

Respirò lentamente mordendosi le labbra per non urlare, sedendosi sulla sedia che gli veniva indicata.

La vecchina che abitava al piano inferiore al suo, l’unica che, sfortunatamente, conosceva la sua situazione a parte Yohei e la sua armata, aveva chiamato i servizi sociali.

Che lei lo odiava profondamente lo sapeva ma che arrivasse al punto di denunciarlo...

Si diede mentalmente dello stupido per tutte le volte che l’aveva ignorata mentre ascoltava distrattamente mister Okura dirgli che non poteva vivere solo, che era minorenne, che avrebbero pensato loro a lui, che aveva commesso un lunga serie di reati minori non informando le autorità della sua situazione e per di più cominciando a lavorare in nero, che era troppo giovane per sapere che cosa voleva dalla vita...

Cosa voleva dalla vita....

Hanamichi chiuse gli occhi mentre il mondo attorno a lui silenziosamente si sfaldava sfuggendogli dalle mani.

Lo avrebbero portato lontano.

Forse lo avrebbero messo addirittura in un istituto.

Non voleva andarsene, amava quel luogo, quella scuola e le persone che vi aveva conosciuto.

Fugacemente si chiese che cosa avrebbe fatto Rukawa se tornando non lo avesse trovato.

Una vocina malefica gli fece notare che probabilmente, addormentato com’era, nemmeno se ne sarebbe accorto.

Non voleva, non poteva permetterlo!

Non ora che...

<Ora che... cosa?> Si chiese perplesso.

L’immagine di Rukawa che sorrideva alla madre si ripresentò alla sua mente ma le parole di Mister Okura lo riscossero prima di permettergli di analizzare la sensazione che, a quella visione, era tornata a impadronirsi di lui.

“Verrai con me” disse lanciandogli uno sguardo che non gli piacque affatto.

Sapeva che non sarebbe servito urlare.

Sapeva che non sarebbero serviti gli avvocati.

Quando sua madre era morta suo padre era ancora molto giovane e LORO, gli assistenti sociali, avevano tentato di portagli via il bambino dicendogli che non poteva farcela da solo.

E suo padre era scappato con lui.

Creandosi una nuova vita, lì dove nessuno li conosceva, portando con se solo qualche vestito e quella foto che stava sopra il suo televisore.

E ci era riuscito.

La sua voglia di sopravvivere, l’avere qualcosa di prezioso, come un figlio, da proteggere, gli aveva permesso di farcela.

Di salvarli entrambi.

Con lui Hanamichi era cresciuto felice.

E quando era morto anche lui non si era arreso.

Aveva lottato per proteggere la vita che così a caro prezzo i suoi genitori gli avevano dato.

E ora...

Ora quello che era stato l’incubo di suo padre per quattordici anni, e che negli ultimi due era diventato il suo, era tornato a reclamare la sua vendetta.

Sapeva di non poter averla vinta contro di loro.

Gli restava solo la fuga.

Ma a quanto pareva avevano già pensato anche a quello.

L’uomo portava con se una valigia.

Dentro di essa c’erano, probabilmente, i suoi vestiti e i suoi pochi effetti.

La partenza era stata già decisa e sarebbe stata immediata.

Nemmeno il tempo di avvertire.

Di salutare.

“No!” disse facendo un passo indietro riscuotendosi di scatto.

Suo padre era fuggito.

Poteva farlo anche lui.

Un modo avrebbe trovato...

Il pugno gli giunse in pieno stomaco strappandogli l’aria dai polmoni.

Aveva visto giusto.

Non avevano mandato un tipo qualunque a prenderlo.

Ebbe la visione sbiadita del sorriso soddisfatto della sua vicina e del preside che fingeva di non vedere prima di perdere i sensi e accasciarsi tra le braccia dell’assistente sociale.

 

“Ma che fine ha fatto?” mormorò Ayako fissando l’orologio appeso alla parete.

Quasi in risposta alla sua domanda la porta della palestra si spalancò ma sulla soglia non c’era, come si aspettavano Sakuragi, ma il suo migliore amico, Yohei.

“Ditemi che è qui?” prego disperato guardandosi forsennatamente attorno.

“Chi?” chiese Myaghi perplesso.

Mito lo fissò per un momento prima di accasciarsi sulle ginocchia “Merda!” tuonò colpendo il palque con un pugno.

“Ma che sta succedendo?” chiese Mitsui preoccupato.

In quel momento alquanto trafelati e ugualmente in ansia giunsero alla palestra Okuso, e Takamiya.

“Non l’abbiamo trovato da nessuna parte” mormorarono pallidi.

“Yohei!” Noma arrivò di corsa e fermandosi solo un momento per riprendere fiato prima di parlare “L’hanno portato via due minuti fa!!”

Chi ha portato via chi?” chiese sempre più preoccupata Ayako.

“Gli assistenti sociali...” sussurrò mestamente Yohei, il volto ancora ostinatamente rivolto al pavimento, “... gli assistenti sociali hanno portato via Hanamichi.”

 

Hanamichi emise un piccolo lamento passando la spugna sull’ennesimo livido.

Un conato di vomito lo scosse ma s’impose di trattenersi.

Ormai era diventato un esperto.

Aveva imparato che se piangeva o gridava la soddisfazione di quell’uomo non faceva che aumentare e allora restava in silenzio.

Aveva cominciato a rispondere a monosillabi.

Sì, no.

Gli sembrava di essere Rukawa.

Rukawa... chissà perchè il suo pensiero riusciva a dargli la forza di andare avanti.

Di affrontare il sole del mattino senza desiderare disperatamente che quella luce fosse l’ultima, anche se avrebbe avuto tutti i motivi per farlo.

I suoi incubi si erano avverati.

E la realtà era ancora più brutta del sogno.

Lo avevano messo in un riformatorio.

“Una soluzione temporanea...” aveva ghignato Dan Okura, “... solo finchè imparerai le buone maniere.” Gli aveva detto.

Non aveva ancora accettato il fatto che Hanamichi fosse riuscito a cogliere la sua distrazione ed atterrarlo con un pugno prima di provare a scappare.

Purtroppo era stato inutile.

Come tutto il resto.

Aveva imparato la lezione.

Sopravvivere era ancora la sua prima regola.

Sopravvivere in qualche modo, tutti i giorni, rispondendo solo sì e no.

Non diceva altro.

Non reagiva alle provocazioni, ai colpi.

Obbediva e basta.

Anche quando Dan gli ordinava di spogliarsi.

Lo faceva in silenzio.

Aveva imparato a sue spese, le prime volte, che ribellarsi non solo non serviva ma rendeva le cose molto più dolorose.

Aveva provato, all’inizio a mandare delle lettere, a scrivere ai Yohei, al ministero dei servizi sociali per denunciare quell’uomo ma Dan le aveva trovate e l’aveva picchiato.

Da quella prima volta l’assistente sociale non aveva più abbassato la guardia con lui.

Ma c’era ancora un momento in cui si distraeva.

E in vista di quel momento Hanamichi aveva preparato il suo piano.

In quei tre lunghissimi mesi infernali aveva imparato, aveva studiato ogni mossa del suo aguzzino.

Era pronto.

Tutto per quella sera.

Ci sarebbe stato il cambio della guardia e il meccanico aveva riportato la macchina di Dan in garage.

Aveva poco tempo ma se lo sarebbe fatto bastare.

Quando l’uomo che si ‘occupava di lui’ gli si avvicinò nella sala comune poggiandogli una mano sulla spalla non fece una piega.

“E’ ora di andare a letto” gli sussurrò all’orecchio con fare lascivo.

Hanamichi chiuse il libro che fingeva di leggere e si diresse verso la sua camera seguito dallo sguardo degli altri ragazzi.

Alcuni lo fissavano con compassione ma i più evitavano di guardarlo, sapevano che finchè sarebbe toccato a lui Dan non avrebbe messo le mani su di loro.

Hanamichi si spogliò e si stese sul letto aspettando.

Sapeva che sarebbe andato da lui.

Come aveva fatto quella prima sera quando erano giunti lì.

Durante il loro lungo viaggio Dan non si era certo fatto pregare per usare le maniere forti con lui e Hanamichi aveva notato che l’uomo sembrava prenderci gusto in modo particolare.

“Mi piace la sofferenza di voi piccoli insettini” gli aveva sussurrato una volta all’orecchio mentre Hanamichi si piegava sul suo pugno.

Da allora aveva imparato a non gridare.

A non piangere.

E Dan aveva trovato un altro modo per ferirlo, per distruggerlo.

La prima notte che erano giunti lì lo aveva spedito nella sua stanza, stranamente una singola.

All’inizio non aveva capito perchè, si era detto che forse la sua era davvero una sistemazione temporanea e che per questo lo tenevano separato dagli altri.

Hanamichi vi si era chiuso a chiave sfogando il suo dolore e la frustrazione contro il cuscino finchè non si era addormentato esausto.

L’aveva svegliato il rumore della porta che si apriva.

Logico che l’assistente sociale avesse una copia delle chiavi.

Se l’era ritrovato sopra senza che avesse nemmeno il tempo di pensare.

Quello che era accaduto dopo, quello che da quel giorno, in quei lunghissimi tre mesi, si ripeteva tutte le notti era stata la sua punizione.

Ma anche la sua unica speranza.

Avvertì la porta aprirsi e chiuse gli occhi.

Attese, sentendolo salire sul letto.

Lo lasciò fare ricacciando la nausea e il dolore, l’umiliazione a la vergogna.

Emise solo un tremulo sospiro quando lo sentì venire dentro di se perchè seppe che anche per quella notte era finita.

Dan si accasciò su di lui e Hanamichi ricorrendo a tutta la sua disperazione infilò una mano sotto il cuscino ne estrasse il tubo che aveva staccato dal bagno e che in ore e ore di lavoro aveva affilato con cura.

Stringendo gli occhi per non vedere lo sollevò di scatto.

L’uomo su di lui sussultò osservando il pugnale improvvisato ma non ebbe modo di muoversi che l’arma calò sulla sua schiena affondando nella carne.

“Lurido basta...” le ultime parole dell’assistente si persero in un gorgoglio di sangue che spruzzò il petto e il viso di Hanamichi.

Il rossino si morse le labbra con forza per non gridare, allontanando il cadavere da se prima di balzare giù dal letto.

Si ripulì in fretta con un lembo di lenzuolo evitando accuratamente di fissare l’uomo che aveva ucciso prima di raccogliere la sua sacca e la busta con i documenti.

Corse fuori nel cortile, attraverso i corridoi vuoti per il cambio, e giunto al garage salì in macchina.

Non aveva mai guidato in vita sua ma in compenso in sala videogiochi era un pilota provetto.

Pregò perchè tutte quelle ore passate nel simulatore di corse con Yohei fossero servite mentre infilava le chiavi con mani tremanti.

L’auto partì al secondo tentativo, non aveva tempo per fare prove di guida, pigiò sull’acceleratore con tutte le sue forze facendo stridere le gomme sull’asfalto lucido del garage attraversando il cortile come una saetta.

Cercarono di fermarlo ma Hanamichi azionò il telecomando attaccato alle chiavi aprendo il cancello elettrico che lo separava dalla libertà e, prima che qualcuno avesse modo di fare niente, sparì all’orizzonte.

 

Si fermò un minuto solo infilando la busta nella cassetta della posta accanto al distributore di benzina, l’aveva notata la prima volta che l’avevano portato lì e non se l’era dimenticata.

Riprese la strada a tutta velocità mentre pregava che la busta giungesse a Yohei e che tutto andasse come aveva sperato.

Scelse una laterale inerpicandosi per il pendio collinoso, aveva poco tempo prima che lo raggiungessero e lo chiudessero di nuovo in quell’inferno.

Doveva farcela.

Una curva più secca e poi lo vide.

Il burrone in fondo al quale scorreva il fiume.

Alto, a picco.

La macchina vi si sarebbe sfracellata e la corrente l’avrebbe fatta a pezzi portando via tutto.

Il suo dolore, i suoi ricordi, la sua paura.

Inspirò profondamente e scosse il capo, girando nuovamente la chiave dell’accensione.

Di Hanamichi Sakuragi non sarebbe rimasto niente.

 

Ho chiuso con il Passato....

 

continua............                                                                                            

 

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