La farfalla e la margherita                Back to FanFic  Back to Home

 

 

Pow Hanamichi.

 

Piccole.

Trasparenti.

Silenziose.

 

Le onde bagnano la costa, accasciandosi sulla sabbia bianca con un leggero sussurro che si perde nel vento.

Un gabbiano plana, lontano, in alto, nel cielo azzurro...

...così azzurro da sembrare irreale.

 

Uno sfondo perfetto per le sue ali bianche.

 

Candide.

 

Lucenti, nella luce del sole.

Una pennellata più chiara tra le sfumature vaporose delle nuvole.

 

Allungo una mano verso il cielo come se, anche da qui, potessi arrivare a toccare quella tela perfetta.

Ma il mio braccio è tropo corto.

Il mio corpo troppo pesante.

E la mano ricade silenziosa, in grembo, mentre lui continua a librarsi tra le correnti aeree, dondolando ipnoticamente, tra il cielo e il mare.

 

Ricordo una poesia che lessi quand’ero bambino.

 

Ero davvero piccolissimo, andavo ancora alle elementari credo.

Però mi bastò sentirla una volta per non dimenticarla più.

 

Narrava di un fiore.

 

Un piccolo fiore, in un grande prato.

Un margheritina.

Come ce n’erano a milioni, miliardi.

Una piccola margherita dai petali bianchi, semplici, ma con un grande cuore, giallo, come il sole.

 

Il fiorellino lottava tutti i giorni per diventare grande.

 

Per far sbucare la sua testolina tra i lunghi, altissimi, steli d’erba.

Perchè, lassù, in quel cielo che riusciva a scorgere a malapena, coperto come le era dalle grandi foglie delle altre piante, aveva visto quella creatura.

 

Azzurra, come l’acqua cristallina che le dava la vita ogni mattina.

Leggera, come la brezza del vento gentile che per lei scostava, di tanto in tanto, i grandi steli d’erba perchè il sole potesse sfiorarle le guance.

 

Era stato amore a prima vista.

 

Era così bella.

Così eterea e perfetta quella figlia del cielo.

 

Farfalla.

 

Così, la rosa, le aveva detto che si chiamava.

 

Lei la conosceva bene.

La splendida rosa con i suoi perfetti petali di velluto aveva già ricevuto il bacio della farfalla, tante e tante volte.

 

Invece la margherita... la margherita era troppo piccola.

 

Troppo soffocata dalle altre erbe per giungere al cielo.

Troppo comune per essere notata da quell’angelo elegante.

Troppo grezza per la sua raffinata bellezza.

 

Ma il piccolo fiore non voleva arrendersi, perchè avrebbe fatto di tutto per giungere a lei, per rivedere le sue ali almeno una volta.

 

Finchè un giorno, il vento aveva spostato gli steli d’erba e la farfalla posatasi tra i petali della rosa notò in mezzo al verde quella piccola macchiolina candida.

Le grandi ali azzurre sfiorarono l’aria dorata mentre il piccolo cuore della margherita esplodeva, battito dopo battito, nel suo petto verde smeraldo.

E la farfalla, si posò su di lei deponendo un casto bacio sul suo cuore, assaggiando il suo nettare caldo e dorato.

 

Dolce, determinato e coraggioso.

Come la piccola margherita.

 

Per attimi interminabili, di gioia lucente, la farfalla rimase immobile.

Ma poi scosse nuovamente le sue ali e si librò nell’aria.

 

Libera, leggera.

 

E il piccolo fiore che l’aveva osservata allontanarsi con il cuore in pezzi, frullò disperatamente i suoi petali candidi nel tentativo di alzarsi in volo con lei.

 

“Ma duro stelo alla terra lo tiene,

Il fiore è un aquilone dal filo breve.”

 

Così diceva la poesia.

Un aquilone dal filo troppo corto.

Ancorato a terra da radici pesanti come catene, ad osservare lei, magnifica e indifferente, volare via.

In alto, in quel cielo azzurro che ancora una volta gli veniva nascosto dagli steli dell’erba.

 

Sospiro, scuotendo il capo.

 

Anche Rukawa è volato via.

Se n’è andato.

Ha preso l’aereo ed è partito per la terra dell’NBA.

E io, come il piccolo fiore, sono rimasto a terra a fissare il grande aereo bianco sollevarsi piano e sparire tra le coltri azzurre.

 

Infondo alla farfalla che cosa importava se il fiore l’amava?

C’e n’erano così tanti di fiori che l’osannavano e la piccola margherita non era che uno di essi.

Perchè avrebbe dovuto notare la sua semplice corolla bianca?

 

Perchè Rukawa avrebbe dovuto scegliere me?

 

Perchè quando c’è Sendoh a riempirlo d’attenzioni?

Il porcospino che è stato scelto per volare in america insieme a lui.

L’asso del Ryonan, il più volte nominato MVP.

 

Perchè Rukawa avrebbe dovuto scegliere me?

 

Perchè quando all’areoporto c’era quella selva di ragazze adoranti.

Pronte a fare qualsiasi cosa per lui.

 

Sospiro di nuovo, osservando le onde rincorrersi sulla battigia, ancora, senza sosta.

Non vi stancate mai?

Non vi arrendete mai?

Per quanto baciate la spiaggia lei non si concederà mai a voi, lo sapete?

Allora perchè tanta ostinazione?

 

Non ha senso rimanere qui ad annegare nella malinconia, non è da me.

Però mi sento così... semplicemente... vuoto.

Non mi manca la forza di tirarmi in piedi, me ne manca la voglia.

Rimango qui ad osservare le onde chiare e a domandarmi se mi passerà mai.

 

Dicono che il tempo guarisce ogni ferita.

 

Che si dimentica.

Si cresce.

Si matura.

Ci s’innamora di nuovo.

 

Dicono.

 

Un altro lento sospiro e poi mi decido e mi alzo, spazzolandomi i pantaloni con le mani, imponendomi di muovermi.

Non è da me perdermi d’animo così, e non ha nemmeno senso.

Rukawa non tornerà indietro per quanto io mi angusti.

Lui sta inseguendo il suo sogno.

Ed è giusto così.

 

Che voli, lui che può.

Che dimostri a tutti quegli americani qual’è la sua forza.

Quant’è grande la sua determinazione.

Come splende il suo talento.

 

Diventerà una stella.

Lo so.

Ne ho l’assoluta certezza.

 

Scuoto il capo mentre mi avviò lentamente verso la palestra, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.

Non so per quale mio stupido masochismo ma ho voglia di rivedere quel campo su cui, tante volte, l’ho visto allenarsi.

Il sole mi accarezza il volto e io chiudo gli occhi per un momento, lasciando che quella carezza leggera mi sfiori le guance.

Chissà se anche le mani di Rukawa sulla mia pelle sarebbero così: dolci e tiepide.

 

Mi bruciano gli occhi.

 

“Ci mancherebbe solo che mi mettessi a piangere qui, in strada...” mormoro piano, ammonendomi a voce alta, accelerando il passo.

 

La colpa è mia.

 

Io ho cominciato a gridargli contro che lo odiavo.

Io mi sono innamorato di lui.

Sempre io ho aspettato, l’ultimo momento, quella sera per dirgli... ti amo.

 

Quando ha detto che partiva... quando ci ha spiegato che dei talent scount l’avevano notato durante il campionato e gli avevano offerto di partire per una anno di studio in America, con la possibilità, poi, di finire lì la scuola...

...non sono riuscito a fare niente.

Mi rendevo conto che avrei dovuto dire qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Ma semplicemente quel suo “parto per l’America...” mi rimbombava nel cervello annullando tutti gli altri pensieri.

Alla fine, non so come, sono riuscito a tirare fuori la voce.

Suonava falsa persino a me.

Ho detto cose prive di senso?

Probabile, non lo so, nemmeno me lo ricordo.

So solo che alla fine sono scappato.

 

Dalla palestra, da lui, da tutto.

 

Ho passato tutto il pomeriggio a vagare per il centro senza riuscire a vedere o a sentire niente.

E alla fine mi sono ritrovato lì, di nuovo in palestra.

Di nuovo al punto di partenza, come se, nonostante il mio disperato tentativo di allontanarmi, una bussola mi avesse ricondotto da lui.

Lui che era lì a raccogliere le sue cose.

Con la luce del sole che entrava a fiotti dalle grandi finestre, illuminandolo.

Con la brezza che gli faceva danzare i capelli scuri.

Con quello sguardo blu come il mare, concentrato nel controllare di non aver dimenticato nulla.

 

“Ti amo...”

 

Lo dissi ancora prima di rendermene conto.

Lo dissi piombandogli addosso, posando goffamente le labbra sulle sue, ritirandomi in fretta, scioccato dal mio stesso gesto.

Era così stravolto che nemmeno mi tirò un pugno.

Ma quello che disse mi fece molto più male.

“Domani parto.. con Sendoh...”

 

Già, Sendoh.

 

Perchè la farfalla avrebbe dovuto scegliere la margherita quando poteva avere la splendida rosa?

 

Lui è partito.

Con qualcuno che ha il suo stesso talento, la sua stessa bravura.

Che non ha avuto paura di dichiarargli i suoi sentimenti da subito.

 

E ora sono insieme.

 

Saranno gli unici due giapponesi.

Si daranno man forte, faranno amicizia, impareranno a comprendersi e poi...

 

Mi sto facendo del male da solo.

Lo so, ma non posso fare a meno di rivedere nella mia mente loro due, uno a fianco all’altro, salire su quell’aereo.

 

E io invece sono qui, a piangermi addosso.

 

Io odio le persone che si piangono addosso, non le sopporto!

 

Deboli, che si lasciano schiacciare dagli eventi.

Stupidi, che non hanno colto le occasioni e che, invece di cercarne di nuove, si disperano all’infinito su quelle ormai perdute.

 

Ma infondo... lasciateci almeno sfogare, siamo solo stanchi dal troppo affannarmi per capire un mondo che gira sempre al contrario del verso che abbiamo scelto.

Chissà poi, perchè.

 

Scuoto il capo con forza asciugandomi con rabbia le lacrime bollenti, cominciando a correre a capo chino, i singhiozzi stretti tra i denti.

 

Pena.

Faccio pena.

Nient’altro.

 

Per fortuna che oggi non ci sono gli allenamenti e che nessuno mi vedrà in questo stato.

 

Giungo negli spogliatoi e mi chiudo con forza la porta alle spalle, accasciandomi contro il muro accanto agli armadietti, il petto scosso dai singhiozzi e il volto devastato dalle lacrime.

 

Patetico.

 

Me le asciugo con rabbia, sollevando il volto, per cercare di darmi un contegno, e incontro lo sguardo della mia immagine riflessa, così impietosamente, dallo specchio.

 

Lo sconosciuto di fronte a me chi è?

 

Un singhiozzo gli scuote il petto con un piccolo singulto fragile.

Sembra così disperato.

 

Lo guardo e cerco di capire.

Di vedere, attraverso le lacrime che mi offuscano la vista.

Quando si parla di una persona che piange s’immagina una scena dolce, bella, nel suo dolore.

Ma nell’immagine che mi riflette lo specchio non c’è niente di bello.

 

C’è solo quello stupido che piange.

 

Con gli occhi rossi, le labbra gonfie e il petto spezzato da lamenti indefiniti, stupidi e stonati.

 

E’ brutto.

 

E’ brutto e patetico quel ragazzino che non conosco.

E’ così puerile.

Infantile.

 

Lo disprezzo.

Lo odio.

 

Guardalo, ora piange ancora più forte.

 

Cretino.

Mammoletta.

 

Che ca**o hai da piangere?

 

Te la sei cercata e ben ti sta.

E finiscila che sei ridicolo!

Ti ho detto di smetterla.

Smettila!

Piantala!

 

Lo specchiò va in mille pezzi contro il mio pugno e io mi fermo ad osservare quei frammenti di vetro esplodere attorno a me, scintillare, per poi cadere con tanti tintinii leggeri, a terra.

 

E’ questo il rumore che, dicono, si sente, quando il cuore va in pezzi.

 

Allora il mio non dev’essere rotto.

Perchè quando ha detto che partiva... io non ho sentito niente.

Nessun rumore di cocci.

Nessun grido di anime lacerate.

Niente di niente.

C’era solo silenzio.

Un devastante, enorme, silenzio.

 

Esamino le sfaccettature seghettate di questi mille frammenti di vetro osservandole stupito.

Mi rimandano l’immagine, mille volte ripetuta, di quel ragazzo dai capelli rossi, dagli occhi gonfi e il viso sfatto.

Tanti occhi scuri, come i miei, pieni di dolore.

Tanti piccoli Hanamichi, frammenti di me, che mi guardano.

 

Mi guardano e piangono.

 

Allungo una mano e ne raccolgo uno rigirandolo tra le dita.

 

Ecco.

Questo è un pezzetto di me.

 

Ne prendo un altro e lentamente li ricollego fino a ricostruire lo specchio, sul pavimento.

Adesso mi posso vedere di nuovo tutto intero.

 

Ma restano le crepe.

 

E ci sono frammenti di vetro più piccoli che sono schizzati via nascondendosi chissà dove.

Quelli non li ritroverò più.

 

Destino assurdo e crudele.

Uno di quei frammenti manca proprio all’altezza del cuore.

 

“Bhe mi sembra giusto così...” sussurrò tra me alzandomi lentamente, osservando quel me stesso a fatica ricostruito.

“Quel pezzo lo terrà Rukawa...” mormoro piano, voltandomi per andarmene da qui.

Non voglio che qualcuno arrivi attirato dal rumore e mi trovi in questo stato.

 

Ma non posso camminare.

Non posso muovermi.

 

Perchè...

Sulla soglia dello spogliatoio...

C’è lui.

 

Kaede.

 

Con lo sguardo deciso e il volto stravolto.

I capelli arruffati e le guance arrossate dal pianto.

La valigia in una mano e...                       ... l’ultimo pezzo di vetro nell’altra.

 

“Lessi una poesia quand’ero bambino...” mormora.

“...parlava di una farfalla che volava tra i fiori alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare.

Aveva assaggiato il nettare delle rose più belle, aveva odorato il profumo delle orchidee più rare eppure si sentiva così vuota e sola.

Finchè un giorno in un grande prato vide una piccola margherita.

 

Solo una margherita.

 

E lei, lei era una farfalla troppo bella per una margherita.

 

Tuttavia quei suoi petali erano così candidi.

Quel suo cuore era così giallo, luminoso e splendente, che la farfalla decise di assaggiarne comunque il nettare.

 

E lo scoprì caldo, dolce e forte.

Coraggioso, vitale e puro.

 

Nessuna rosa aveva quel sapore.

Nessuna orchidea aveva quel profumo.

 

Ma la farfalla sciocca si disse che era assurdo, che non poteva davvero esserci ciò che lei cercava in una margherita, e si alzò in volo.

Se ne andò lontano rincorrendo i suoi sogni.

 

Ma sai?

 

Non riusciva a dimenticare la margherita...”

 

Mormorò piano Rukawa, avvicinandosi allo specchio, rimettendo il pezzo di vetro al suo posto, prima di voltarsi a guardare il rossino.

 

Aveva cercato di dimenticare quel suo goffo “Ti amo...”, quel suo bacio rubato, ma non aveva potuto.

Quando era salito sull’aereo accanto ad Akira, quell’Akira che gli si era dichiarato due mesi prima, quando lo aveva incontrato per caso in una discoteca gay, si era detto che per lui cominciava una nuova vita.

Che in America sarebbe cresciuto come atleta e come uomo magari proprio grazie a Sendoh che, doveva ammetterlo, ammirava per il suo talento e si era rivelata una persona cordiale e affascinante anche fuori del campo da basket.

 

Aveva pensato tutto quelle cose guardando le ruote dell’aereo che si staccavano da terra.

Osservando il riflesso del sole sul finestrino.

Sfiorandosi le labbra con le dita.

 

Il suo primo bacio.

 

Quel casinista se l’era preso senza chiedergli il permesso.

Dandogli in cambio cosa poi?

 

Un “Ti amo...” sussurrato con gli occhi lucidi e voce tremante.

Un “Ti amo...” tirato fuori da dentro l’anima.

 

Non il “Tu mi piaci, tra noi potrebbe funzionare, perchè non proviamo?” di Akira.

Infondo Sendoh non aveva rischiato nulla.

Lo aveva trovato in quel locale e aveva capito.

Gli aveva sorriso e gli aveva detto che visto che erano entrambi single avrebbero potuto provare.

E Rukawa aveva scosso le spalle.

Nona aveva niente da perdere o da rischiare.

Non amava Sendoh ma era stanco dei pomeriggi solitari, se non avesse funzionato ci avrebbe comunque guadagnato qualche allenamento extra.

 

Invece il do’aho....

No, quello stupido do’hao aveva fatto come il suo solito.

Tutto e subito.

 

Un “Ti amo...” così totale e devastante.

Un “Ti amo...” che si metteva completamente in gioco.

Un “Ti amo...” detto al proprio peggior nemico, dato a scatola chiusa ad un ragazzo che, per quel che ne sapeva lui, era etero.

 

Un “Ti amo...” che pretendeva un altrettanto “Ti amo...” in risposta.

 

Nessun compromesso.

Nessun “Proviamo..”

 

O tutto.

O niente.

 

E Rukawa non aveva avuto il coraggio.

 

Lui stava per partire, per realizzare il suo sogno di andare in America.

Aveva accanto una persona che gli avrebbe dato un solido appoggio, sicurezza e maturità senza comportare nessun sacrificio, nessun rischio.

 

Quante volte se l’era ripetute nella testa quelle considerazioni?

E quante volte esse si erano sciolte nel ricordare quel suo sguardo d’oro lucente sciogliersi in lacrime lungo le guance prima che, com’era venuto, Hanamichi se ne andasse.

 

Aveva appoggiato il piede sul territorio americano solo il tempo per scusarsi e tornare indietro.

 

“Sei sicuro?” gli aveva chiesto Akira, preoccupato più che Rukawa sprecasse un’opportunità per il suo futuro che di perdere un compagno.

In effetti nemmeno lo erano compagni.

“No...” aveva mormorato Rukawa “...ma devo farlo o me ne pentirò per tutta la vita”.

E Akira gli aveva augurato buona fortuna con un sorriso.

“Tornerò l’anno prossimo, con lui!” gli aveva risposto il volpino correndo verso il cancello d’imbarco.

 

Aveva corso e aveva pianto.

Di gioia, di paura.

Era risalito su quel dannato aereo ed era tornato indietro.

 

Da lui.

 

Per restituirgli quel “Ti amo...” che non aveva avuto il coraggio di dirgli.

 

Si riscosse dai suoi pensieri, guardando Hanamichi che lo fissava con occhi enormi, sgranati.

Il suo do’aho.

La sua piccola, candida, margherita dal cuore d’oro lucente.

 

“E così...” sussurrò il moretto chinandosi sul suo viso “...la farfalla tornò indietro per assaggiare di nuovo il nettare della margherita...” sussurrò, sfiorandogli le labbra con le sue in un lungo, lento, bacio mentre le braccia di Hanamichi si sollevavano a cingergli le spalle e lo specchio, a terra, rifletteva con i suoi mille pezzi le loro anime finalmente unite.

 

 

fine...                                         

 

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